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  • Fuccillo, ma quale settembre? Serie A a giugno o fine dei giochi! Dallo sport alla politica, l'Italia è divisa in due

    Fuccillo, ma quale settembre? Serie A a giugno o fine dei giochi! Dallo sport alla politica, l'Italia è divisa in due

    • Franco Recanatesi
    Mi spiace dover ribattere al mio fraterno amico Fuccillo una sua tesi suggestiva ma impraticabile. Sostiene Mino, su questo stesso sito, che la soluzione migliore fra quelle prospettate, su ciò di cui si va animatamente discutendo fra noi calciofili, sarebbe quella di slittare la ripresa del campionato 2019/20 al mese di settembre. Come?  Esaurendo le 12 giornate residue prima di Natale e ricominciando il nuovo campionato a gennaio per concluderlo a ottobre/novembre. 

    Si dimentica un fattore essenziale. Il calcio non può essere considerato un movimento nazionale, ma globale, numerose essendo le concatenazioni che lo regolano A cominciare dalle competizioni internazionali – quelle di maggior impatto e maggior peso economico – come la Champions, l’Europa League, l’Europa Conference, la Coppa America. E le qualificazioni ai Mondiali. E gli Europei in programma a giugno prossimo. E le Olimpiadi della prossima estate. E inoltre. Il mercato. Impossibile ignorarlo per giocare sino alla fine dell’anno con le stesse squadre. Lo vietano i contratti in scadenza, lo vietano gli affari già conclusi, lo vietano – ancora una volta – gli intrecci internazionali. Il mercato ha delle gabbie temporali ben precise per tutti i Paesi, apertura e chiusura possono variare di pochissimo. E fra tutti i Paesi si svolgono scambi, affari, cessioni e acquisti.

    Sento dire: a settembre il virus sarà domato, o comunque apparirà meno cattivo. Non ci sarà bisogno di rigide “bolle sanitarie” e qualcuno azzarda persino la prospettiva che il pubblico possa far capolino sulle tribune. Me lo auguro ma, purtroppo, non ci credo. Se stiamo alle previsioni degli scienziati e dei politici – pur quanto mai controverse – gli scenari di settembre sono due, uno positivo l’altro no. Il primo: stiamo imparando a convivere con il Coronavirus, una vita diversa, accorta, distanziata, forse mascherata (nel senso: con la mascherina), ma fuori dalle mura di casa. 
    Secondo scenario: nuova ondata del contagio, probabilmente meno violenta della prima perché stavolta a suo vantaggio non giocherà la sorpresa.

    Dunque, escludiamo l’ipotesi della ripresa settembrina. A questo punto ne rimangono soltanto due: ricominciare a giugno o annullare la stagione. Le due campane suonano con la stessa intensità, direi che i sostenitori dell’una e dell’altra si equivalgono. Li guidano due generali con la G maiuscola, i due principali esponenti del nostro movimento sportivo. Da una parte Gabriele Gravina, presidente della Federcalcio, che di tutto farà per non passare come il “becchino del calcio italiano”, come ha sostenuto nell’acquario di Fabio Fazio. Dall’altra Giovanni Malagò, capo dello sport che resiste gagliardamente ai tentativi di ridimensionamento. Perché il capo dello sport spinge il calcio fuori dalla scena? Pare strano, ma la mia interpretazione è questa: fra i due capataz non corre buon sangue, ma soprattutto Malagò deve difendere le posizioni e l’onore di tutte le altre discipline, alcune delle quali hanno già spento l’interruttore, altre saranno costrette a farlo.

    A sostegno delle due anime, due diversi schieramenti politici e persino l’intrusione della pletora di scienziati che invade giornali e teleschermi. Mi par di capire che la sinistra propende per il “ripartiamo”, la destra per “tutti a casa”. Nel governo del Paese, come in quello dello sport, non c’è identità di vedute. Il ministro dello sport Spadafora sta con Gravina, quello della sanità Speranza si allea con Malagò. Fotografia di un’Italia di oggi e di ieri. Mai come adesso torna d’attualità una massima di Goethe: “E’ necessario unirsi non per stare uniti, ma per fare qualcosa insieme”. Impresa ardua, come togliere lo sport dalle grinfie di questo virus maledetto.

    Ah, dimenticavo. Io non voglio sottrarmi al voto dopo avere criticato coloro che hanno esposto il proprio pensiero. Solo che, onestamente, sono assai combattuto: fra la voglia di rivedere il pallone e il timore che il pallone gettato prematuramente in campo possa frenare la rincorsa del Paese. So soltanto che le alternative sono due e due soltanto. E fra queste non c’è quella partecipata dal mio grande amico e collega.

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