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  • Guardiola ai Dorados di Sinaloa: 6 mesi nella terra del Chapo per diventare il migliore al mondo

    Guardiola ai Dorados di Sinaloa: 6 mesi nella terra del Chapo per diventare il migliore al mondo

    • Angelo Taglieri
    "Goooooooooooooooooooooooooooool"

    Infinite o e una l che non vuole arrivare mai. Come la felicità dopo un gol: esplosiva, predatoria e, appunto, infinita. Il telecronista impazzisce quel 22 aprile del 2006, un sabato pomeriggio come un altro, quello della Liga MX, che sta vivendo la sua clausura e sta per dare i suoi verdetti. Se non fosse che sul prato dell'Estadio Víctor Manuel Reyna, casa dei Jaguares de Chiapas, club della cittadina di Tuxtla Gutiérrez, stia scrivendo calcio uno dei giocatori più belli della storia: Pep Guardiola. Maglia dei Dorados di Sinaloa, numero 8 sulle spalle, un assist già confezionato per la testa di Andrés Orozco, l'ex Barcellona, da sinistra, calcia un'altra punizione. Una di quelle fastidiose per chi deve guardarsi le spalle: infide e indifendibili per i difensori, tagliate e taglienti per il portiere. Pep calcia, nessuno la tocca, palla in rete. 

    "Goooooooooooooooooooooooooooool"



    NO AL CITY - I Dorados vinceranno 4-2 in trasferta, Guardiola metterà il suo zampino anche nella terza rete, frutto di un'altra sua punizione. Ma nel 2006, nella prima metà del 2006, cosa ci fa Pep Guardiola in Messico? Reduce da due anni all'Al Alhy, biennio arrivato dopo Brescia, Roma, e ancora Brescia, Pep si allena con il Manchester City per una decina di giorni. Sono i Citizens di Calamity James, di Distin, di Joey Barton, Andy Cole, Darius Vassell, Kiki Musampa e Antoine Sibierski. Stuart Pearce, manager di quella squadra, gli offre un contratto fino al termine della stagione. Ma Guardiola dice no, rifiuta. "Perché?" "Per il Messico".
    "E perché il Messico, Pep?"
    "Perchè là c’è Juan Manuel Lillo"


    L'AMBIENTE - Sinaloa è conosciuta per tre motivi: El Chapo Guzman, il narcotraffico e i Tomatores de Culiacan, squadra di baseball locale che attira tutto il paese, accogliendolo, all'epoca, nell'Estadio General Ángel Flores. Il calcio è lì, marginale, giovanissimo e quando arriva Pep ha da poco compiuto i tre anni. "E' un bebè che deve fare il servizio militare", così definiscono quella squadra ancora bambina ma già nel massimo campionato messicano, che ha un grosso pesce come simbolo, e che si affida al grande veterano Pep, chiamato all'ultimo atto della sua carriera. Nella sua testa, il 35enne Guardiola ha già le idee chiare: vuole fare l'allenatore. E sa che quei mesi in Messico saranno fondamentali per i suo percorso. "Pep vuole venire qui. Siamo grandi amici, vuole fare l'allenatore e vuole imparare". Questo dice Juan Manuel Lillo all'allora presidente Juan Antonio Garcia. Che non può che accoglierlo a braccia aperte. 

    LA SQUADRA - Non per soldi, ma per passione. E per crescere  Per questo, solo per questo Guardiola ha deciso di trasferirsi dall'altra parte del mondo, in una squadra in cui giocano il Loco Abreu (l'altro motivo per cui Guardiola ha detto sì: "potrò dire di aver giocate con il Loco"), una giovane speranza come Adrian Aldrete, fresco di quarti di finale col Messico al Mondiale Under 20, e una vecchia meteora del calcio italiano come Matute, visto, pochissimo, alla Samp. Poca accoglienza di pubblico, ma grande desiderio di conoscerlo per chi era ai Dorados. Come Eliseo Martinez, assistente amministrativo, che se lo immaginava "alto, forte, come un tedesco", e che quando lo vide rimase meravigliato. E affascinato. 



    IL PRECEDENTE - Guardiola e Lillo si sono affrontati, da avversari, in Spagna. Era il 1996 e a Oviedo il Barcellona di Bobby Robson e del vice Mourinho, di Ronaldo, Figo, Luis Enrique ne rifila quattro alla squadra di casa, guidata proprio dal basco JuanMa. Al termine del match, Guardiola va a fare i complimenti a quel tecnico trentenne per il modo in cui la squadra ha affrontato la sfida e per come ha giocato. Guardiola rimane abbagliato e mette Lillo tra quelli da seguire. Perché comunque Pep ha sempre saputo che la panchina sarebbe stata nel suo destino, quindi tanto valeva capire subito da chi imparare. “Prima di smettere voglio essere allenato da te”. Una promessa, poi mantenuta. 

    L'ESPERIENZA - 10 presenze, un solo gol, ma tanto, tantissimo studio. Lo raccontano le testimonianze di chi ha vissuto quel binomio strano e particolare. Come Bernardo Sainz, attaccante messicano, che costruì un ottimo rapporto con Guardiola, e più volte ha raccontato che Pep non era un semplice giocatore, ma un allenatore in campo e anche in panchina, quando non giocava, visto che spesso era lui quello in piedi pronto a dare indicazioni, con una pettorina arancione indossata sopra la divisa dei Dorados. Metodologia di allenamento, movimenti della linea difensiva, occupazione dello spazio e giochi di posizione: insegnamenti (anche) di JuanMa Lillo, segnati tutti sul quel quaderno da cui non si separava mai. Esperienza di fatto finita il 28 aprile, con la retrocessione nonostante l'ottavo posto in classifica (colpa di un sistema di calcolo strano, in cui si tiene conto della media punti degli ultimi 6 campionati). Ma una settimana prima di dirsi addio...

    Scarpette ai piedi. 
    Quaderno e appunti in borsa perché non è ancora il momento.
    Punizione da sinistra.
    Rincorsa.
    Sguardo in area...
     
    ""Goooooooooooooooooooooooooooool"

    Infinite o e una l che non vuole arrivare mai. Come l'addio nella testa di un calciatore. A meno che non si chiami Pep Guardiola. 

    @AngeTaglieri88


     

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