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  • 'Il privilegio di conoscere Wolinski'. Il ricordo di Andrea Bosco #JeSuisCharlie

    'Il privilegio di conoscere Wolinski'. Il ricordo di Andrea Bosco #JeSuisCharlie

    Tra le vittime dell'attentato terroristico al giornale satirico Charlie Hebdo figura anche Georges Wolinski, graffiante disegnatore. Vi proponiamo il ricordo del nostro Andrea Bosco e dell'incontro da lui avuto con Wolinski a Parigi  all'inizio degli anni Novanta .  

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    La mia testata mi aveva inviato a Parigi per intervistare Edgar Morin. Era una stagione di fermenti: in Italia e in Europa. Da noi non era ancora scoppiata Tangentopoli e la parola d'ordine nel Continente come negli Usa era: liberismo. La Francia era alle prese con una forte immigrazione e con il disagio delle periferie. Da noi Milano era “da bere“. Da poco era caduto il muro di Berlino, il partito comunista italiano, ridotto a “cosa rossa“  cercava un nuovo nome. Berlusconi meditava di scendere in campo, la Lega di Bossi più che con gli extracomunitari si accaniva sui “terroni“ e sugli sprechi di  “Roma ladrona“ .

    Incontrai Morin che da anni conoscevo per un “dossier“ politico – letterario. Tema centrale: la televisione. Meglio “La società dello spettacolo“ profetizzata da Guy Debord. Mentre sto preparando le valige mi chiamano da Milano : “Prova a vedere se trovi Claire Bretecher: un pezzo sul femminismo funziona sempre“. Ma Claire in quei giorni non è a Parigi: è in Bretagna per una vacanza. Mi viene, allora, in mente che potrei occuparmi dell'altra faccia della luna: uno che ama le donne e che dell'erotismo ha fatto una bandiera. So chi è Georges Wolinski, ma non ci siamo mai incontrati. Chiamo a Milano , Cristina Taverna, della Nuages: è un'amica. Ma soprattutto lavora con i più grandi disegnatori del mondo. 
    Wolinski abita nella zona di Saint Germain. Quando gli telefono ho l'impressione che proprio non abbia voglia di vedermi. Mi dice: “Richiamo nel primo pomeriggio“. Si riappalesa con un'ora a mezza di ritardo rispetto agli accordi. Ma mi dà l'indirizzo di un bistrot. E' lì che lo trovo, seduto ad un tavolino, con un pastis nel bicchiere e una pila di giornali. Fare un'intervista è un poco come andare a pesca: devi capire che pesce sia il tuo interlocutore. E Georges Wolinski era un guizzante salmone, spesso impegnato controcorrente.

    “Non voglio parlare del maggio parigino e della rivolta studentesca“ mi disse prima che avessi modo di sedermi. Me lo disse - stupendomi - in un buon italiano. Parlando venne fuori che era nato a Tunisi da una madre franco italiana e da un padre ebreo polacco. Lui viveva in Francia dal 1945, dove era diventato un'icona. Durante il 68' una sorta di eroe per gli studenti attraverso la rivista “Action“. Era graffiante, irriverente, pessimista, votato ai doppi sensi, erotico ed erotomane. Benché  amasse definirsi “un simpatico fallocrate“ e nonostante disegnasse donne svestiste, aveva un profonda sensibilità per la condizione femminile.

    “C'è ancora tanto lavoro da fare: le donne si sono emancipate ma non godono di una effettiva parità nella società. Neppure nella società francese, libera per definizione. Ci sono pregiudizi inscalfibili nei loro confronti: dovuti alla storia e alla religione. Ma anche alla difficoltà di penetrare veramente il loro sentire. Una donna può essere un'aquila, pronta a  volare alto, quanto l'uomo generalmente è un orso legato al suo territorio. Pope sosteneva che – nel migliore dei casi - la donna è una contraddizione - Non sono d'accordo ma che il rapporto uomo - donna presenti molte contraddizioni è innegabile. Continuerà ad essere così“ .

    Aveva esordito negli anni sessanta sulla rivista Hara Kiri. In Italia si era fatto conoscere dieci anni dopo, grazie ad Oreste del Buono e Fulvia Serra su “Linus“. Ma rammento che un giorno Hugo Pratt mi disse di aver lavorato con lui per una rivista comunista.
     
    La sua eroina era Paulette creata da Georges Pichard ma sceneggiata da Wolinski.

    Gli chiesi cosa pensasse del problema dell'immigrazione. “La Francia si porta appresso 100 anni di colonialismo. L'integrazione procede a rilento. Molto a rilento. Non si può fare sulla carta quello che la quotidianità poi, nei fatti, non consente. Lavoro e opportunità. E una tolleranza complicata da realizzare. Perché l'Islam di molti africani, magrebini, asiatici è difficile da comprendere per tanti francesi. Non solo per la destra nazionalista, anche per tanti uomini di sinistra. La Francia ha avuto la rivoluzione, l'ha esportata negli Stati Uniti, ha archiviato l'assolutismo. L'Islam, anche quello moderato, ha sovente radici famigliari, usanze, tradizioni insopprimibili. Il capofamiglia è un patriarca dal potere quasi assoluto sulle donne e i figli del clan: ci vorranno molti decenni per poter cambiare le cose“. 

    Parlammo di quella Controriforma sconosciuta nei paesi islamici. Parlammo del potere politico - in quei paesi - indissolubilmente legato a quello religioso.

    Mano a mano che la conversazione procedeva sentivo che si stava fidando. Nel 2005 avrebbe ricevuto la Legion d'onore ma la progressiva deriva commerciale verso la quale si sarebbe spinto gli avrebbe alienato le simpatie e i consensi della critica di sinistra.

    Parlammo anche di media e di televisione in quell'incontro. Mi disse: “Guy Debord ha la sua parte di ragione. Mutuando il pensiero cartesiano è arrivato alla conclusione che nella società dello spettacolo, l'unica cosa a contare è  l'apparire. Appaio dunque esisto. La televisione è un mezzo potente. Ma guai a farne il dominus della società. Le immagini si sfaldano. La scrittura resta. E restano i disegni. Resta la satira che è nata con l'uomo: pensa ad Aristofane e a Plauto“.

    Mentre gli chiedevo cosa fosse per lui la satira, tirò fuori da una cartelletta un foglio e cominciò a disegnare. “Sono stato condannato e costretto a sospendere le pubblicazioni da Hara Kiri per una vignetta dissacrante nei confronti del presidente De Gaulle. La considero una medaglia. Del resto come afferma Orazio: "Cosa ci vieta di dire la verità, ridendo ?“.

    Il foglio sotto la sua matita si stava riempendo: un personaggio indefinito, una telecamera davanti a lui, alcune donnine alle sue spalle. E una scritta in italiano: “Chi se ne frega del programma: l'importante è apparire“. Mi congedò con una risata, quasi a dirmi: “Hai capito di chi parlo?“. L'ho portata in Italia quella vignetta e da qualche parte la conservo. Prima o dopo la troverò .

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    Questa la sintesi del mio primo incontro con Wolinski: lo avrei successivamente, incontrato ancora a Milano. E' morto barbaramente ucciso assieme ai suoi compagni di lavoro. Ai giornalisti capita di finire nei guai per difendere le proprie idee. A volte di cadere facendo il proprio lavoro. Ho avuto il privilegio di conoscere Wolinski. Uno che resterà nella storia. Uno che merita - in difesa della libertà di pensiero - di veder ripetuto mille e poi ancora mille, e mille altre volte: “Je suis Charlie Hebdo”


     

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