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Io e Nils Liedholm, l'allenatore che la Juve si fece sfuggire per colpa di un maggiordomo

Io e Nils Liedholm, l'allenatore che la Juve si fece sfuggire per colpa di un maggiordomo

  • Gian Paolo Ormezzano
    Gian Paolo Ormezzano
Una volta il celeberrimo calciatore e allenatore svedese Nils Liedholm (1922-2007) mi sottopose ad una delicata intervista che cominciò con la domanda più difficile: “Come mai tu ed io siamo diventati così tanto amici in così poco tempo?”. Eravamo in un ristorante torinese, non so più per quale ragione (e d’altronde manco so perché siamo diventati amici). Ricordo che gli balbettai dello scatto misterioso del cosiddetto feeling. Io ero un giornalista sportivo neanche troppo specializzato in gioco del calcio, lui era un ex grande giocatore ed un allenatore che stentava a ritrovarsi, a realizzarsi tutto nel nostro mondo sportivo, dove pure raccoglieva successi eccome (peraltro in eventi che io professionalmente coprivo solo ogni tanto). Gli dissi anche, ricordo, che un certo Ugo Foscolo, poeta italiano davvero bravino, ha comunque scritto tutto su questo tipo di feeling: “Celeste è questa corrispondenza dì amorosi sensi, celeste dote negli umani”. Penso che mi pensò pazzo. Magari divertente, sicuramente pazzo, come quasi tutti gli italiani secondo quasi tutti gli scandinavi.

Omisi di dirgli che io, ragazzino quattordicenne tifoso del Toro e ancora in pieno lutto post-Superga, lo ricordavo nel campionato 1949-50 infliggere a Torino, sotto i miei occhi adoranti, un 7 a 1 alla Juventus, lui gigante in attacco con Nordahl e Gren suoi connazionali rivelati dai Giochi olimpici di Londra 1948; segnò pure Candiani fra i rossoneri e Parola grande stopper bianconero perse le staffe. Non mi avrebbe capito, Nils troppo sportivo, troppo algido e severo, troppo logico, e umorista a modo suo. Cerco di raccontare ora un personaggio anche per dire di come e di quanto sia cambiato il nostro mondo, il nostro ambiente, e pazienza se mi tocca provare un brivido di paura pensando a Nils vivo adesso, fra scempio e obbrobrio e altro ancora peggio, e io che non so cosa dirgli, cosa dargli.

Pensate, sì, a Liedholm allenatore oggi, alle prese con il denaro sempre troppo del calcio e ormai irrorante in quantità vergognosa pure gli agenti dei calciatori, i colleghi degli agenti (mamme di calciatori comprese), con un qualche emiro che mette i soldi e vuole decidere e decide anche se ignorante del pallone, con gli ultras violenti e impuniti e usati dalla politica, con la n’drangheta e la camorra a concorrenziare la mafia che c’era già, con droghe e scommesse a corrompere tutto e di più. Lui che mi diceva: “Sai quando mi trovo a disagio in Italia? Quando – e accade spesso - sono in auto, trasgredisco, mi fermano per multarmi, mi riconoscono, mi fanno andare via senza pagare per l’infrazione che pure ho commesso”. Faceva errori buffi in italiano ma era semplice da capire, sempre. Mai detto da lui “giocare”, sempre “iocare”.

Cerco di offrire il mio Liedholm, forse è paleo-giornalismo, forse è antiquariato della penna prosciugata, forse il mio fare rischia di creare interesse non solo nostalgico. Nils si era sposato tardi con una nobile piemontese del Monferrato, la contessa Maria Lucia Gabotto di San Giovanni, lei teneva le efelidi come lui, aveva un’azienda vinicola splendida (ora è cinese), lui era astemio. Amo eccome il vino, gli chiedevo il permesso di berne a tavola con lui, magari era lo splendido grignolino della moglie, lo invitavo a provare. “No e poi no, non so perché ti piace, io non ci trovo niente di speciale”. Una volta sottolineai che la sua azienda di famiglia produceva uno spumante prezioso sentimentalmente intitolato “Raggio di Luna”, soprannome di un altro grande calciatore svedese, Selmosson, Udinese e Lazio, addirittura in Italia una rivista teatrale di successo intitolata ad una sua ipotetica presidentessa (La padrona di Raggio di Luna), e lui quasi glaciale: “Nome casuale, deciso comunque da altri , mai pensato a Selmosson per il vino”.

Lo portavo a parlare di religione, cose magiche, misteri divini o simili, o anche astrologia. E lui: “Io sono per direi definizione uno scandinavo ateo o quanto meno agnostico, ma se devo scegliere fra due giocatori per lo stesso ruolo scelgo quello che è nato sotto il segno dello scorpione” E anche: “Allenavo il MIlan e la vigilia degli incontri casalinghi portavo la squadra in ritiro a Busto Arsizio, dicevo che l’albergo aveva un ristorante che serviva del gran pesce e stanze tranquille, in realtà volevo parlare la vigilia con il padrone dell’hotel, un astrologo”.

Il suo calcio era stellare ma geometrico, non magico. Campione olimpico a Londra 1948 con la Svezia, vice-campione mondiale nel 1958 proprio in Svezia dietro al Brasile del primo Pelè, in Italia dal 1949 sempre nel Milan, 89 gol in 394 partite, l’ultima nel 1961 a 39 anni. Molto semplicemente si riteneva il migliore del mondo nel suo ruolo (mezzala, si diceva) e non solo. Provvisto poi del tiro più fulminante del pianeta. Era allenatore ideale per la Juve, con moglie torinese di stirpe bianconera, ma a Boniperti presidente il “Barone” Nils aveva chiesto anche un maggiordomo pagato dal club, non se ne fece nulla.

Che personaggio ci siamo goduti, quanto personaggio ci siamo perduti non avvicinandocelo ancora di più. Ha allenato Varese, Monza, Fiorentina, Verona, soprattutto Milan e Roma, vincendo scudetti e sfiorando grandi coppe. Gli devo la meglio frase quando ancora si andava dopo il match nello spogliatoio per le interviste. La sua Roma era in testa alla classifica e un mio collega gli disse: “Cosa si prova, mister, a essere primi, come vive la novità?”. E lui: “Si sbaglia, altre volte l’ho provata, pensi alle prime giornate di alcuni campionati, con la mia squadra vittoriosa”. A Milano-San Siro da giocatore per due anni non sbagliò un passaggio, quando finalmente si permise l’errore la gente in coro fece “ooohhh” e poi applaudì.

Ai Giochi Olimpici di Los Angeles 1984 stavo in un albergo di uno svedese che sosteneva di avere giocato da ragazzo con il grande Liedholm, e che mi chiese di dirlo a Nils. Nils mi ascoltò, mi disse di non ricordare assolutamente la cosa, gli chiesi comunque di scrivere due righe al presunto compagno di pallone, mi chiese un giorno di tempo. ”Non so più scrivere bene in svedese”. Poi compitò la lettera, ovviamente scrisse che ricordava tutto, da allora io ogni volta a Los Angeles ho avuto in quell’albergo lussuosa stanza gratis e ricco buono pasto con champagne californiano.

Suo figlio Carlo sapeva di questo nostro feeling, e un giorno mi telefonò: “Papà non si è ripreso da un ictus che lo ha praticamente distrutto quando abbiamo sepolto mamma. E’ peggiorato, vuoi venire qui? Sta male ma forse ti riconosce“. Andai a Villa Bohemia di Cuccaro Monferrato, ecco Nils in sedia a rotelle, gli strinsi forte la mano e gli dissI: “Sono l’amico tuo e di quello svedese di Los Angeles al quale hai scritto quella famosa lettera”. Ridacchiava, speravo che capisse, mi sbagliavo. Morì qualche giorno dopo. E’ sepolto a Torino, accanto alla moglie. Non nascono più campioni così, d’altronde neanche si producono strani giornalisti cosà. E’ tutto cambiato, mai oserò dire se in meglio o in peggio. A proposito: a questo punto importa molto sapere come mai siamo diventati così amici?

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