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L'illegale traffico di valuta nella Cina di Mao e la paura del carcere dietro la Grande Muraglia

L'illegale traffico di valuta nella Cina di Mao e la paura del carcere dietro la Grande Muraglia

  • Gian Paolo Ormezzano
    Gian Paolo Ormezzano
A riposo forzato per mancanza di partite, i nostri giornalisti inviati di Centesimo minuto in queste settimane mettono a disposizione la loro esperienza e i loro vissuti con una serie di articoli legati a situazioni di cui sono stati 'Testimoni oculari'. 

Sono stato mezzora con puntati alla schiena i mitra a canna corta degli sgherri di Videla (Buenos Aires 1978, ai tempi della grande repressione condotta dai militari al potere in Argentina), potevo comodamente morire quella sera là in quel vialetto lì, ne ho scritto soltanto molto tempo dopo. Ne ho scritto anche per parzialmente espiare il peccato di non giornalismo commesso non riferendo tutto subito, fra l’altro dando retta agli inviti al silenzio diciamo diplomatico da parte di due compagni in quell’avventura, i celebri Enzo Bearzot e Omar Sivori. Non ho scritto mai di un’altra volta in cui sono andato vicino, se non alla morte, alla detenzione lunga e probabilmente mortifera:  nessun interesse giornalistico in quanto occorsomi, però se fossi stato scrittore vero quello era un racconto di Kafka, ancorché con risvolti persino un poco comici. Ci provo.

Pechino aprile/maggio 1966, allora. La Francia aveva riallacciato i rapporti diplomatici con la Cina di Mao, che invece per l’Italia non esisteva ancora.  Un’amica di me ex nuotatorucolo agonistico e poi giornalista, lei ex grande  nuotatrice francese diventata giornalista–scrittrice e quindi addetta-stampa del ministro dello sport del suo Paese (lei massì Monique Berlioux poi anche direttrice generale del Cio per tanti anni), il leggendario Herzog primo bianco a scalare gli 8000, mi fece avere una sorta di carta d’identità francese per entrare in Cina. Col mio giornale avevo quasi scommesso: se ottengo un visto per la Cina, mi pagate il viaggio? Sì, sì, sì, con la certezza che mai il visto sarebbe arrivato. Invece eccomi col visto a Hong Kong che era ancora britannica, col treno eccomi a Canton piena Cina, ecco finalmente l’aereo per Pechino. Eccomi a fare il giornalista venti ore su ventiquattro, sonno quasi niente per due settimane girando dal primo mattino la città, la campagna, i centri universitari e ovviamente quelli sportivi, mangiando cose mirabili, andando la sera a teatro a vedere le saghe dei partigiani di Mao, la notte a ballare nei corridoi dell’albergo con quelli e soprattutto quelle di una troupe artistica francoafricana.

Mi accolsero benissimo, io con le mie richieste, fra l’altro mi radunarono in uno stanzone dieci atleti famosi e però cinesi dunque fuori dalle Olimpiadi pur essendo quell’anno nel mondo uno il migliore sprinter sui 100, uno il migliore ostacolista sui 110, una la migliore saltatrice in alto. Giornalisti che parlavano francese e inglese si diedero il turno acciocché il collega straniero che ero io fosse del tutto agevolato. Avvicinai anche studenti francesi lì per i primi scambi culturali, uno di loro mi chiese se avevo dei dollari non denunciati alla frontiera, gli dissi di sì (mi avevano consigliato a Parigi di fare così), mi diede del denaro locale (gli yuan) in favorevolissimo cambio e con esso comprai alcune statuette di ambra, splendide.

Ultima mia sera a Pechino e in Cina. I giornalisti sportivi locali danno una immane cena in mio onore. Anatra cucinata in settanta sì settanta modi diversi, compresi  becco e piume. A metà serata piomba nel ristorantone quello studente francese dei dollari, è stravolto, mi dice di andare a fare pipì con lui, rimasti soli mi dice che subodorano il nostro traffico di valuta, per via dell’acquisto dell’ambra con tanto di segnalazione. E’ crimine gravissimo, devo riprendermi i dollari e ridargli denaro locale. Ne ho ancora, glielo do, i dollari tornano a me, li rimetto in quella tasca segreta del giubbotto. Si scusa, mi saluta, sparisce. Mi viene freddo, sono in colpa. Finisco male la cena. Aereo dopo poche ore, ho messo le statuette d’ambra, incapace di buttarle via, fra i vestiti, nella valigia, se alla dogana in uscita mi chiedono di esse, di come le ho pagate, dico che è stato un regalo di un pazzoide generoso. Ridicolo, sarà un gran casino, pagherò eccome, chissà quanto e come. Mi sento più che cretino, e sono quasi terrorizzato. Non frugano, o non sanno niente o sanno tutto ma hanno pietà del cretino. Avevo pensato di fermarmi un paio di giorni nella seducente peccaminosa Hong Kong trascurata all’andata, e invece prendo il primo aereo per tornare a casa. Progressivamente mi renderò conto di avere, davvero e addirittura, rischiato di passare il resto dei miei giorni dietro la Grande Muraglia. 

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