40 anni fa la morte di Paparelli: ecco perché viene ricordato, a differenza di tante altre vittime negli stadi
Il clima in cui l’Italia viveva, nel secolo scorso, ha avuto varie e rapide fasi, il finale non è stato dei più brillanti e l’inizio del nuovo, dall’11 settembre in poi, è andato sempre in discesa. Gli italiani, sempre più distratti e individualisti, non ricordano neanche un nome dei 39 morti dell’Heysel né i media – che ne assecondano gli umori anziché spiegare e proporre soluzioni – si sono mai più occupati, per esempio, di Antonio De Falchi, di Antonio Currò, di Vincenzo Spagnolo, di Vincenzo Lioni, di Matteo Bagnaresi e tanti altri anonimi caduti in nome del pallone, sulle tribune o dentro i treni bruciati o negli scontri tra opposte fazioni, per la maggior parte poco più che ventenni. E cosa ne è stato del quattordicenne Ivan Dall’Oglio, fiorentino, dal 1989 col volto sfigurato dalle fiamme? E della famiglia Esposito dopo l’uccisione di Ciro cinque anni fa? C’è una gran ressa nel dimenticatoio.
Dei Paparelli, invece si sa quasi tutto, la memoria viene rinfrescata ad ogni ricorrenza. Perché? Perché il figlio Gabriele ha saputo far vivere il padre nella memoria della gente; e perché il popolo laziale è particolarmente sensibile alla storia dei suoi colori e ai colpi del destino che perfidamente hanno toccato sia i suoi giocatori che i tifosi. Parlo dei tifosi veri, non di quelli che irridono i neri o sfilano per le strade di Glasgow col braccio teso nel saluto romano. Sono questi che infangano le società e le squadre che dicono di rappresentare, sono questi che accendono le micce di risse o vere e proprie battaglie, sono questi a issare – da Nord a Sud della penisola - le bandiere della violenza. E ancora oggi e lungo gli ultimi, tormentati quarant’anni, la violenza degli ultrà ha conosciuto una escalation che nè le società (eccezioni la Lazio di Lotito e la Juventus di Agnelli), ricattate e spesso conniventi, né gli organismi direttivi (Lega e Figc), né i giocatori (per paura o per convenienza), né gli arbitri (mai fermata una partita per i buuu razzisti) hanno avuto il coraggio di contrastare.
La morte di Paparelli è un’icona: il simbolo dell’assurdità, della violenza al quadrato, della ferocia del tifo. Andare a vedere il derby con quattro razzi a paracadute di quelli usati per le segnalazioni nautiche e un piccolo bazooka capace di lanciarli fino a 250 metri a 80 metri al secondo significa forse non partire da casa con l’intenzione di uccidere ma certamente con la consapevole leggerezza che potrebbe succedere. E’ successo, alle 13,30 di domenica 28 ottobre 1979, quando il percorso di 160 metri dalla curva romanista alla curva laziale di uno dei quattro razzi si è spento conficcato in un occhio del meccanico Vincenzo Paparelli che con sua moglie Vanda aspettava l’inizio del derby Roma-Lazio sgranocchiando una bustina di bruscolini.
Giovanni Fiorillo, l’armiere, aveva 18 anni e i suoi amici-complici di piazza Vittorio press’a poco la stessa età. Figli del proletariato privati certamente delle attenzioni della famiglia, ma anche naufraghi in un mare sociale e politico che definire tempestoso sarebbe riduttivo. Condannato in Cassazione a 6 anni e dieci mesi dopo 14 mesi di latitanza, Fiorillo morì a soli 32 anni, non si sa bene se per overdose o malattia.
Paparelli continua a vivere anche da morto, ma tutt’oggi fatto oggetto, o meglio pretesto, dell’odio ma ammorba il gioco del calcio: quarant’anni dopo, suo figlio Gabriele tiene sempre in tasca una bomboletta spry, pronto a cancellare scritte come “10, 100, 1000 Paparelli” o “Morto un Papa…relli ne uccidiamo un altro” che lasciano assai poco spazio alla speranza.