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  • 'Ma quanto rosicate per Totti?' 'Addio divino solo perché la Roma vince poco'

    'Ma quanto rosicate per Totti?' 'Addio divino solo perché la Roma vince poco'

    • Fernando Pernambuco
    Riceviamo e volentieri pubblichiamo.

    “Egregio Sig. Pernambuco,

    mi rivolgo direttamente a lei perché mi sono fatto l’idea che sia fieramente un antiromanista. Non so per chi tifi (forse Inter, Juve o Lazio…) ma sicuramente non per la Roma e allora vorrei dedicarle queste mie riflessioni sull’addio di Totti al calcio, che l’altra sera si è consumato come un rito ammantato dall’epica. Ne hanno parlato per ore radio, televisioni; ne hanno scritto giornali e perfino il New York Times gli ha dedicato un lungo articolo. Anche molti laziali hanno omaggiato quello che per noi è l’essenza del calcio e della romanità. 

    Non si ricorda a memoria d’uomo, un addio più commovente, più intenso e più “partecipato”.

    Eppure c’è chi ha storto la bocca, chi ha fatto le pulci, chi ha detto “era l’ora”, insomma chi ha rosicato. Sui social molti hanno scritto che quel saluto in diretta è sembrato esagerato, che Totti ha detto della banalità ecc. Io dico a lei e a quelli che hanno criticato o hanno dimostrato freddezza che un campione come Totti non se lo possono permettere. Non solo dal punto di vista tecnico, ma anche affettivo e simbolico. Totti rappresenta 25 anni di fedeltà, di divertimento, di semplicità, di dedizione, di genialità. Soprattutto rappresenta l’essenza d’una città e, mi verrebbe da dire, d’un certo modo di essere. Quanti altri personaggi, calciatori o no, possono dire altrettanto?

    Sì, chi non ha capito, appunto rosica e trova cavilli invidiosi di fronte a un evento affettivo e spettacolare di così grande portata.
    In fondo quelli come lei, che tante volte hanno criticato la Roma e Totti, mi fanno pena.

    La saluto.
    TuttoTotti”


    Egregio Signor TuttoTotti,

    come si diceva un tempo nelle interviste, “La ringrazio per la domanda” Qui dovrei dire: “per la lettera”. Intanto sgombriamo il campo dai riferimenti personali: non sono antiromanista, anzi non sono anti-nessuno. Nel caso poi dell’evento di cui lei parla mi sono astenuto dall’ intervenire. Lo faccio ora approfittando di quanto scrive, per tratteggiare brevemente il fenomeno del Tottismo.

    1) Non è una novità. L’altra sera s’è consumato un rito collettivo, che per noi è parso una novità, ma negli Stati Uniti e non solo è andato in scena parecchie volte. La prima più di mezzo secolo fa, nel’39, allo Yankee Stadium, quando Lou Gherig, prima base degli Yankee lascia, dopo 2.131 partite consecutive, lo sport. Ha 36 anni e la Sla lo attanaglia, deve poggiare a terra la coppa: le braccia non reggono più. Piangono in 60 mila, piange il Sindaco di New York Fiorello La Guardia, perché l’addio non è allo sport, ma alla vita. Addii spettacolari si ripeteranno per Michael Jordan, Kobe Bryant e in Argentina per Diego Armando Maradona. Drammaticissimo: “Io sono sporco, ma il calcio è pulito” proferì nella Bombonera di Buenos Aires, mentre si trascinava sorretto dalle figlie, in un delirio di folla.

    2) Il fenomeno Totti. Da tempo Totti ha smesso di essere un calciatore per diventare un fenomeno. Quello appunto che si dice nella lettera: l’idea che addirittura rappresenti lo spirito di Roma. Un’essenza metafisica e divina, capace di  trascendere la realtà. E’ l’ “ottavo re di Roma”, è un secondo Papa, “Francesco II”, e se qualcuno si premette di dubitarne, si becca del rosicone, dell’ invidioso. Ma a Roma ci sono anche i laziali, gli interisti, gli juventini o gli indifferenti. Perché chi non si dimostra idolatra di Totti, chi non ha pianto per il suo addio deve essere additato come un poveraccio? Mattia Feltri sulla “Stampa” sostiene appunto questo, che non si può restare indifferenti alla commozione pressoché universale che, domenica sera, ha pervaso l’Olimpico e l’Italia. E, invece, si può: Totti è stato un grande campione, ma non è Gesù Cristo, non è il Papa e, al massimo rappresenta un simbolo trascendentale per i tifosi della Roma. Feltri si lascia andare ad un paragone romantico: quando Ettore muore, scrive, anche Achille piange. Ora il paragone è struggente, ma tottescamente sentimentale e fallace perché quando Achille uccide Ettore, quello che farà sarà liberare i cani affinché ne sbranino le membra. E l’odio che pervade Achille, infuriato per la morte di Patroclo, non la compassione. Ma la beatificazione terrena è capace anche di tarantolare e rovesciare i classici occidentali, in un delirio pantottistico che non lascia scampo. 

    Claudio Genta, nel suo “Tutti Convocati” ripete a macchinetta che “Totti è stato il più ggrande calciatore italiano del dopoguerra”. Invano gli intervistati Zoff e Guidolin fanno melina, rispondendo che “sì, beh…è stato un grandissimo, che non si discute, ma però…”. Alla fine Zoff, spazientito, sbotta in un laconico: “Se proprio devo scegliere, allora dico: Rivera”. E  Guidolin: “Primo, secondo, terzo…non vuol dire niente…”.

    3) Tottismo. A poco a poco i tifosi della Roma hanno invertito le parti, sono diventati prima tifosi di Totti poi della Magica. La ragione risiede nella storia della squadra, non solo nella simpatia suscitata da “Francesco, che è rimasto quel semplice ragazzo di sempre” con l’accento romanesco e qualche imbranataggine capace di dotare l’eroe d’un fascino umano. Sono diventati tifosi di un grande campione semplicemente perché la squadra ha vinto poco e non ha mantenuto quelle promesse che annualmente si ripropongono nella certezza “di spaccare il mondo”. Durante molti, troppi anni, la Roma vince al massimo un campionato, una Coppa Italia; arriva terza, seconda, va inopinatamente fuori dalle Coppe internazionali e allora chi resta? Lui, il ragazzo, il Pupone, che incarna l’altro mito del puer divino, sempre giovane eppure capace di giocate magicamente adulte. La Roma è ripetibile, ripetibilissima nei suoi insuccessi. Lui no. E’ unico. Si ripresenta, per Totti, quello che in misura minore, avvenne per un altro geniale, elegantissimo campione: Antognoni. I tifosi viola, in mancanza di risultati, deliravano per il galoppo ispirato del purosangue.

    Ecco che dalla delusione per la squadra, nasce il culto per l’individuo. Circolava, fino a poco tempo fa, la battutta: “al settantesimo, entra Totti, risolve in goal e firma un nuovo biennale”. Negli ultimi anni non è andata così, con contratti milionari, dall’ultima gestione Sensi in poi?  Nel calcolato discorso d’addio c’è stato pochissimo spazio per la A.S. Roma, giusto il perentorio quanto opinabile “privilegio di essere nato a Roma ed essere romanista” e il prevedibile omaggio al magazziniere, perché Totti, alla fine, non è stato per la società sempre una delizia. E’stato anche una croce. I presidenti, i dirigenti, gli allenatori in realtà dovevano subirne la presenza: non amore, bensì timore. Timore della piazza, non solo della Curva Sud, ma della pressione popolare che considerava il Pupone un intoccabile. Sabatini, Baldini, Spalletti hanno cercato di detottizzare la Roma, ma non ci sono riusciti. Hanno sempre dovuto subire pressioni e diktat che li ponevano in una situazione di sudditanza. Basta sentire i fischi che hanno accolto Spalletti, capace, l’hanno scorso di resuscitare una squadra in piena crisi d’identità e, quest’anno, di farla arrivare seconda. I suoi meriti sono scomparsi di fronte agli “sgarbi” (non scelte tecniche, non valutazioni tattiche…) nei confronti del Pupo divino.

    4) Nessuno c’è riuscito. Così come nessun essere umano era fin lì, riuscito a fermare l’imperatore Napoleone, anche l’ottavo Re di Roma è stato fermato da un evento non umano. Napoleone, in Russia, fu sconfitto dal Generale Inverno. Totti, a Roma, è stato sconfitto dal Generale Tempo. Quello che non sono stati capaci di fare Pallotta, Sabatini, Spalletti, gli arbitri, la Juventus, la geopolitica… l’ha fatto “il maledetto tempo”, avversario imbattibile anche dal più eterno dei ragazzi, che, per paradosso, ha lasciato un sacco di orfani molto più vecchi di lui.

    P.S. Lei ha ragione: il New York Times dedica un lungo articolo all’addio pubblico di Totti. Il tratto preminente risiede soprattutto nel contrasto fra una folla delirante, costretta a vivere in una città in pieno decadimento. Una ripresa, in fondo, dell’antica formula: “Panem et circenses”, con cui Giovenale indicava i desideri della plebe romana.

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