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  • Mancini a CM: 'Il no alla Juve, la mia lite con Vialli: Paolo Mantovani è il più amato dai tifosi della Samp'

    Mancini a CM: 'Il no alla Juve, la mia lite con Vialli: Paolo Mantovani è il più amato dai tifosi della Samp'

    • Renzo Parodi
    “Paolo Mantovani sta sopra tutti, è inarrivabile e giustamente i tifosi della Sampdoria lo hanno scelto come il personaggio più grande dell’intera storia del club”. Al telefono dalla casa di Roma la voce di Roberto Mancini ha un tono dolce e vagamente nostalgico. Il ricordo del presidente ha per lui e tutti gli altri ragazzi della banda Boskov un posto speciale nella galleria della loro vita calcistica. Il ct della Nazionale italiana non è affatto stupito dell’esito del referendum lanciato da calciomercato.com che ha laureato il presidente dello scudetto come il più amato personaggio di tutti i tempi. Proprio Mancini ha guadagnato il secondo posto, sul podio con Gianluca Vialli. Quarto un altro immortale, Vujadin Boskov.  “Non mi stupisco dell’esito del referendum fra i tifosi – dice Mancini – senza il presidente non ci sarebbero state la grande Sampdoria, lo scudetto e tutte le altre vittorie. Per quasi un decennio siamo stati al vertice del calcio italiano ed europeo, abbiamo disputato tre finali europee, vincendo la coppa delle Coppe a Goteborg e purtroppo perdendo due volte contro il Barcellona (votato come il peggior nemico con 115 indicazioni, ndr): nell’89 la Coppa delle Coppe e nel ’92 la Coppa dei Campioni. Paolo Mantovani creò una vera famiglia, in cui tutti si rispettavano, stavano al proprio posto e davano il massimo per la maglia. Non che fossimo degli angioletti, per carità. Nello spogliatoio capitava che si litigasse, io e Pagliuca una volta venimmo alle mani ma il giorno dopo tutto tornava come prima. Persino con Vialli ebbi un momento di scazzo, durò un paio di settimane e sapete perché? Perché Luca in allenamento mi aveva chiamato Mancini, anziché Mancio o Roberto come era solito fare. E io mi ero impennato. Con Boskov non ci parlammo per qualche giorno ma facemmo la pace dandoci la mano di fronte alla gradinata Sud festante, dopo una partita vittoriosa, mi pare contro l’Inter”.

    Anche col presidente ci furono un paio di passaggi difficili. Il primo alla fine della tormentata stagione 1985/86, la Sampdoria aveva evitato la retrocessione per un pelo e il presidente era scontentissimo. Lo era anche Roberto, aveva avuto continui scontri col tecnico, Eugenio Bersellini, che non gli risparmiava rimbrotti, richiami e qualche passaggio in panchina. “Ero molto scontento e demoralizzato. Andai da Mantovani e gli chiesi di mandarmi in prestito al Bologna. ‘Con Bersellini qui non ho futuro’. ‘Non ce n’è bisogno’, mi rispose. Ho licenziato Bersellini, il nuovo allenatore è Vujadin Boskov”. Boskov fu l’altro grande colpo di fortuna di Roberto. Nessuno come il tecnico di Novi Sad seppe comprenderne le sfumature intime e quella vena di anarchia che contraddistingue i campioni. L’intuizione che lo rese immediatamente gradito a Mancini fu la seguente: “Tu giochi punta libera”, gli disse Boskov e Mancini poté finalmente realizzare il sogno di giocare come piaceva a lui: giostrare a briglia sciolta negli ultimi trenta metri di campo, inventare calcio e segnare gol impossibili, quelli facili li sbagliava quasi sempre. ll sodalizio, umano e tecnico con Vialli, suggellò quel sogno. I gemelli del gol, dall’84 al ’92 furono una delle migliori coppie d’attacco d’Europa e probabilmente del mondo. L’altra spina con Mantovani, Mancini provò a togliersela nell’estate del ’93, ma allora fu una innocente provocazione, più che un ultimatum. “Presidente, potrei andare a giocare nella Roma”, dove nel frattempo era transitato il suo mentore, Boskov, che fece esordire un certo Totti. Mantovani lo mandò a quel paese e la cosa terminò lì. Si preparava la squadrone che con Gullit, Evani e Platt avrebbe conquistato il terzo posto e la quarta coppa Italia, purtroppo in absentia di Mantovani, morto a ottobre del ’93. 

     Al di sopra del bene e del male su quella Sampdoria ruggente vegliava il Grande Padre blucerchiato. Mantovani aveva un debole per Mancini.  Una volta si lasciò scappare una frase eloquente: “Se Roberto non gioca, non mi diverto!”. Vialli ci restò male e una domenica in cui Mancini era squalificato, col presidente la buttò lì: “Niente stadio, oggi?”. Memorabili le trattative per i rinnovi contrattuali. Mancini chiedeva una cifra e Mantovani gliene offriva una più alta. Allora Mancini rilanciava: “Presidente, rinuncio a cinquanta milioni se mi fa capitano della Sampdoria”. Per la fascia dovette attendere il ‘91, quando Pellegrini passò al Verona. Un giorno, a chi scrive Mantovani confidò: ‘Se lei avesse un figlio più debole non gli riserverebbe le maggiori attenzioni?’ Ecco, Per il presidente, Mancini era come un figlio vulnerabile ancorché amatissimo, al quale nei primissimi anni non lesinava rimproveri e tirate d’orecchi: “E vero – conferma il Mancio - Quando facevo qualche cavolata il presidente mi convocava in villa, su tra gli ulivi di Sant’Ilario, e mi faceva delle formidabili ramanzine. Ascoltavo, promettevo, mi impegnavo ma ero giovane e un po’ scapestrato e qualche ‘belinata’, come si dice a Genova, finivo per farla”.

    Come quella volta che, istigato dal capo degli Ultras, nonché magazziniere Claudio Bosotin, Mancini dichiarò che lo stadio di Genova, intitolato a Luigi Ferraris, socio del Genoa cfc e caduto nella grande Guerra, doveva cambiare nome. Apriti cielo! Mantovani andò su tutte le furie e stilò un comunicato ufficiale in cui definiva “improvvida e inaccettabile” la proposta di cambiare il nome dello stadio genovese e chiedeva di poter votare, in caso di referendum, presso la sede sociale del Genoa. Ovviamente per il mantenimento dell’intitolazione a Ferraris. “Quella volta io e il “Boso” ce la vedemmo davvero brutta. Mantovani era fuori dalla grazia di Dio…”. Si capisce. Il presidente fu sempre attentissimo ad evitare di dare esca alla rivalità fra i tifosi delle due sponde genovesi. Nel suo affabulante e immaginifico argot slavo-italo-spagnolo, un giorno Boskov disse ad alcuni giornalisti che “Perdomo, (il volante central uruguaiano del Genoa, ndr) può giocare in giardino col mio cane”. Anche quella volta Mantovani montò su tutte le furie. Convocò il ds Paolo Borea e gli ordinò di licenziare in tronco il tecnico. Borea conosceva le improvvise sfuriate del presidente (colpa, anche, del diabete che gli provocava up and down umorali repentini) e fece finta di nulla. Nel pomeriggio Mantovani lo richiamò e gli ordinò di deferire Boskov alla commissione disciplinare della Lega calcio. L’accusa: dichiarazioni offensive nei confronti di un tesserato. Il presidente propose per Boskov una multa salatissima che venne poi ingentilita. Roba di qualche milione di lire, comunque. Sul rispetto per arbitri ed avversari Mantovani non transigeva. Guai a protestare, guai ad accendere polemiche, guai ad attaccare pubblicamente un tesserato. Dopo una ingiusta sconfitta a Bergamo favorita da un arbitraggio penalizzante per la Sampdoria negli spogliatoi Mancini accusò l’arbitro Boschi di Parma e concluse con una frase che suonava così: “Si dovrebbero aprire i cancelli e permettere ai tifosi di entrare in campo…”. Inutile dire che anche quella volta Mancio pagò pedaggio. 

    Mancini è stato col gemello Vialli l’eroe eponimo di quella grande e probabilmente irripetibile Sampdoria. Paolo Mantovani è stato il motore di tutto. Fu proprio Mancini il suo primo acquisto boom. Estate 1982, la Sampdoria era tornata in serie A dopo cinque anni di purgatorio. Borea, ds del Bologna in cui aveva esordito in A, a 17 anni, Mancini, era in procinto di passare alla Sampdoria. Col ds uscente, Claudio Nassi, Borea intrecciò una difficile trattativa che l’ostinazione di Radice, nuovo tecnico rossoblù, fu più volte sul punto di far saltare. Infine Borea strappò al Mancio, in vacanza con la famiglia a Senigallia, il sì al trasferimento alla Sampdoria, bruciando di un giorno l’emissario della Juve – oggi direttore di un noto giornale sportivo – che l’aveva raggiunto al mare convinto di portarlo a Torino senza problemi. Ricorda Mancini: “Avevo dato la parola a Borea e non cambiai idea. La Juve era la Juve e io da ragazzino ero pure tifoso dei colori bianconeri. Ma Borea mi aveva convinto a firmare dicendomi che alla Sampdoria sarei potuto diventare una bandiera come Rivera al Milan, Mazzola all’Inter, Antognoni alla Fiorentina". La Sampdoria non è più un passaggio di carriera – mi spiegò Borea – è un approdo e diventerà grande’. Mantovani? Non lo avevo mai visto, mi fidai delle parole di Borea che mi aveva raccontato dell’ambizione del presidente di costruire uno squadrone capace di rivaleggiare con la grandi storiche. Non mi ero sbagliato, no”.

    L’obiezione ricorrente e che scegliendo la Juve o un’altra big, Mancini avrebbe colto più successi (resta da vedere: con la Sampdoria vinse quattro coppe Italia, una coppa delle coppe, una supercoppa di lega e lo scudetto) e in Nazionale (questo è certo) non avrebbe fatto la grama vita che fece prima con Bearzot, poi con Vicini (che lo spedì sempre in tribuna a Italia ’90) e infine con Sacchi che lo considerava la riserva di Roberto Baggio, circostanza che lo convinse a salutare l’azzurro. “Alla Juve avrei vinto di più, è possibile – ragiona Mancini – e in Nazionale sì, probabilmente non avrei dovuto passare quello che ho passato, un po’ per colpa mia (l’uscita notturna a New York con Gentile e Tardelli che Bearzot non gli perdonò) e parecchio per la guerra che la grande stampa mi fece”. A Italia ’90 un noto giornalista romano lo aveva soprannominato “Cicciobello”, salvo doversi rimangiare il dozzinale sarcasmo, lui tifoso laziale, quando Roberto passò alla Lazio e vinse lo scudetto nel 2000. Ma questa è tutta un’altra storia.
     

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