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  • Mihajlovic conteneva moltitudini: uno schiaffo e una carezza, un uomo leale e pieno di contraddizioni

    Mihajlovic conteneva moltitudini: uno schiaffo e una carezza, un uomo leale e pieno di contraddizioni

    • Furio Zara
      Furio Zara
    Nel provare a raccontare Sinisa Mihajlovic dobbiamo prima di tutto accettare di essere noi stessi - noi che popoliamo questa terra - anime che contengono moltitudini, terre di voli e di inciampi, siamo parole giuste e parole sbagliate. Siamo tante cose, riassunte nel tempo che ci è stato regalato e che siamo tutti qui a consumare, un po’ alla volta. Di Sinisa si è detto e scritto che era duro ma anche dolce, feroce e mite, di quella mitezza pacificata che ha chi ha visto la morte e l’ha scampata, non una, due volte nel suo caso. E’ vero, è stato tutto questo: un uomo pieno di contraddizioni, come lo è chiunque di noi, che ogni cosa la affrontava a muso duro, senza sconti, non a sé stesso e nemmeno agli altri.
    C’è un inizio, c’è uno snodo cruciale nella sua vita. Avere vent’anni - l’età in cui la vita è un progetto - e dover affrontare la guerra, nel tuo paese, tra la tua gente, dentro le mura di casa come raccontò lui una volta, “dove chi aveva vissuto insieme fino ad un attimo prima, un attimo dopo si sparava”: questi sono i vent’anni toccati in sorte a Sinisa, giovane calciatore, fuoriclasse tra i tanti fuoriclasse della Stella Rossa. Andarsene, lasciarsi dietro tutto, preoccupandosi di dare riparo e luoghi sicuri ai suoi genitori - Bogdan e Viktorija, lui serbo, lei croata - per trovare il proprio posto nel mondo. Così è il Mihajlovic, con i riccioli a cascata e lo sguardo severo, che arriva in Italia all’inizio degli anni 90, per vestire le maglie di Roma, Sampdoria, Lazio, Inter e - sposando la moglie Arianna nel 1995 - per fare del nostro paese la sua seconda casa, dove crescere i propri figli e dove convivere con il dolore che mai l’ha abbandonato, quello di una guerra che toglie - dopo la vita - il più prezioso dei beni: l’identità che ognuno di noi custodisce.

    Del Mihajlovic giocatore si ricordano certamente i trofei vinti - gli scudetti e le coppe con Lazio e Inter - ma anche ogni partita affrontata come fosse una battaglia, una questione di vita e di morte da giocarsi con tutte le armi a disposizione. E’ il Mihajlovic che sputa a Mutu durante una sfida tra Lazio e Chelsea in Champions League - otto turni di squalifica e poi il perdono del collega - è il MIhajlovic che insulta ripetutamente Vieira - dirà: “Mi ha chiamato zingaro di merda e io gli ho risposto” - per il suo colore della pelle - squalificato dall’Uefa per due giornate - con il francese che racconta che Sinisa cominciò ad offenderlo addirittura prima di quel Lazio-Asenal di Champions, dandogli del “Negro di merda”, della “Fottuta scimmia nera”. Vieira raccontò pure che chiese spiegazioni di quell’atteggiamento così gratuito e provocatorio persino ai giocatori della Lazio “e quelli - disse - si scusarono con me, cercarono di rincuorarmi, mi dicevano che con lui non sapevano cosa fare”. Faranno la pace, diventeranno amici: perché così era Sinisa, uno schiaffo, una carezza.

    E’ il Mihajlovic che fece fare alla curva della Lazio uno striscione necrologio per il suo amico Arkan, la “Tigre” Arkan, il leader militare serbo, criminale di guerra condannato per genocidio. “Onore alla Tigre Arkan” apparve un giorno di gennaio del 2000 all’Olimpico. Amicizia mai rinnegata, tra l’altro. Perché Mihajlovic - da qualunque parte la si voglia vedere - è sempre stato fedele alle sue idee, al suo contraddittorio mondo di valori. Controverso lo è stato di certo, duro con se stesso e con gli altri, leale di sicuro e trasparente, come pochi altri nel mondo del calcio che spesso pattina sulla fuffa. Del Mihajlovic allenatore ricordiamo la passione, quell’indomita passione che diventava furore che lo spingeva a creare - ovunque ci è riuscito - una speciale fratellanza nello spogliatoio. Sapeva farsi voler bene, perché era il primo a volere bene. A chi stimava, al Calcio che gli aveva dato tanto, alla vita. La fragile dolcezza - più ancora della voluta ferocia - con cui ha affrontato il Tempo è una lezione che resta. Prima, durante e anche dopo la malattia,  navigando tra certezze e discordanze, dopo quel luglio 2019 che gli ha cambiato la vita spostando tutto sul crinale dove i giorni scivolano, finché resta ancora da vivere. E per vivere bisogna essere uomini che contengono moltitudini, come lo è stato Sinisa Mihajlovic.
     

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