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  • Quello che Conte non dice: la Serie A non è l'unica opzione

    Quello che Conte non dice: la Serie A non è l'unica opzione

    • Massimo Callegari
      Massimo Callegari
    Ecco, non poteva esserci un personaggio più adatto di Antonio Conte per il debutto di questa nuova rubrica. Anzi: più che “adatto”, fit. Con quel tocco di internazionalità che mi affascina da sempre, dal mio amato Sudamerica alla Champions che esalta calciatori e …telecronisti. Già, l’internazionalità, uno dei tanti messaggi subliminali rilasciati dalla sua intervista al Telegraph.

    Un modo diverso di porsi, per (provare a) smontare i cliché che lo stesso Conte ha contribuito ad alimentare con il suo carattere spigoloso. Una candidatura alle prossime Europee delle panchine, un manifesto programmatico del suo calcio: nulla si crea e nulla si distrugge. Gli davano del talebano del 4-4-2 e ha vinto con il 3-5-2 che ora non gli scrollano più di dosso: chi è causa del suo brand si rivalga su sé stesso. Con la sua prima Juve aveva decollato coniugando spettacolo e risultati, è atterrato con un Tottenham spento e senza qualità, individuale ma pure collettiva. Boring boring Tottenham*.

    Sottolinea che qualificarsi alla Champions non gli basta, la tendenza ossessivo-compulsiva verso la vittoria è la sua benzina e la sua prigione. Al Tottenham non ha vinto (gran quarto posto comunque da Champions) e non ha festeggiato; all’Inter ha vinto e se n’è andato. Sostiene di “aver trovato” sempre situazioni in cui doveva costruire ma si è dimostrato più adatto (fit) per mettere i primi mattoni. Quando c’è da rifinire ed arredare, si tiene i titoli (più campionati che coppe), i soldi (di buonuscita) e scappa. Lasciando fondamenta solide e sentimenti contrastanti ai suoi ex tifosi. Confessa il sogno di conquistare il Sacro Graal della Champions pur senza rimpiangere l’addio Juve e Inter che poi sono arrivate in finale, giocandosela alla pari con due colossi (Barça 2015 e City 2023).

    L’ambizione lo esalta, poi lo prosciuga e a volte gli toglie lucidità. Proprio al Telegraph ha confessato che al Chelsea voleva Lukaku (e Van Dijk), non gliel’hanno preso e si è inalberato. All’Inter lo aveva ma se ne andò prima lui (solo Hakimi era stato ceduto al momento dell’addio di Conte) del suo centravanti, inquieto come e più del suo padrino calcistico.

    Finora è andata così, ma è pienamente consapevole che serve anche altro per essere attraente per un club Top Class. Non sottovaluterei la scelta di farsi intervistare da un prestigioso quotidiano straniero e non italiano: quello che valeva pochi mesi fa, dopo la rottura con il Tottenham, potrebbe non valere più. Tornare in Serie A, vicino alla famiglia, resta una priorità ma non è più un’assoluta necessità. Ambisce a una realtà di prima fascia ed è pronto ad ascoltare anche offerte dall’estero da società organizzate, con storia e ricca sala trofei. In Italia, insomma, più Milan e Juve del Napoli. Un ambiente in cui i calciatori non chiedano di spostare gli allenamenti in base agli orari della scuola dei figli (ha visto anche questo, negli ultimi anni). Ha quasi sempre ottenuto gli obiettivi che voleva ma al Tottenham si è fidato troppo delle sue capacità, sottovalutando l’importanza del contesto. Nessuno si salva da solo. I grandi club, per resistere al vertice, hanno bisogno di stabilità. Quella che Conte sta cercando prima di tutto dentro di sé e da cui è spesso fuggito. Perché essere rilassato, per lui, significa sentirsi arrivato.


    *Boring boring Arsenal era il coro con cui i tifosi avversari ironizzavano sul calcio noioso (boring) dei Gunners, che nella Premier League 92/93 arrivarono a infilare una serie di ben 12 partite consecutive in cui nessuna delle due squadre segnò più di 1 gol (due 0-0, sette 1-0/0-1, tre 1-1)
     

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