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  • Thuram: 'Il calcio batta il terrorismo'

    Thuram: 'Il calcio batta il terrorismo'

    • Marco Bernardini
    Quando, otto anni fa, dall’elettrocardiogramma risultò che il suo cuore era a “rischio” e che lui avrebbe potuto fare la fine di un suo fratello più piccolo ucciso da un infarto, Lilian Thuram convocò una conferenza stampa per annunciare che non si sarebbe trasferito dal Barcellona al PSG ma che, invece, avrebbe lasciato definitivamente il calcio. Il mondo del pallone tributò la standing ovation a un fuoriclasse di rara qualità e di assoluto spessore morale. In Italia, il Paese che per dieci stagioni fu la sua casa, i tifosi del Parma e quelli della Juventus allestirono nel loro cuore uno spazio dentro il quale la figura di quel calciatore gentleman vivrà per sempre.

    Thuram fece ritorno a Parigi con sua moglie e i suoi due figli Khefren e Marcus, la città nella quale era arrivato dalla Guadalupe che aveva nove anni e non sapeva di essere nero. Nell’isola caraibica dove era nato il bianco e il nero non sono colori. Il marrone e il rosa, semmai. Lui, al massimo, poteva sentirsi marrone osservandosi allo specchio. Ed era una cosa assolutamente normale. Certamente non un motivo di diversità. "A scuola, invece, i compagni mi sbatterono subito in faccia la mia negritude. Ricordo che, in televisione, andava forte un cartone con due mucche. Una era nera e completamente scema. In classe mi paragonavano a lei e mi chiamavano con il suo nome. Ero triste, ma non depressso perché sapevo che la ragione stava dalla mia parte. Mi ribellai non con la violenza ma con la dialettica, e fu l‘inizio di un percorso che ancora oggi non ho abbandonato”.

    E’ la strada indicata anche da "Le mie stelle nere" il libro che Thuram ha scritto nella sua nuova condizione di "uomo pensante" al servizio permanente della società civile e non di ex celebre campione di calcio. Una riflessione lunga più di duecento pagine sui personaggi chiave della storia del mondo, da Malcom X a Obama, con la pelle nera che gli è valso l’apprezzamento planetario della cultura. Ambasciatore attivo e presente dell’Unicef, Lilian ora gira il mondo per dare un senso di operatività alla sua "Fondazione Thuram contro la violenza e contro il razzismo". E in ogni angolo della Terra viene accolto dai capi di Stato come un autentico ambasciatore di pace. Intanto la sua casa è a Parigi.

    Nella "ville lumiere" le ferite provocate dalle stragi di Charlie Ebdo, del Bataclan e del supermercato ebraico si sono improvvisamente e dolorosamente riaperte in questi giorni durante i sanguinosi fatti di Bruxelles. Thuram che ebbe già modo di vivere in prima linea e di commentare gli avvenimenti accaduti nella sua città, dimostra di possedere un’idea piuttosto chiara e lucida rispetto a ciò che di devastante sta succedendo in Europa in questo preciso momento storico. Intanto ci tiene a sgombrare il campo, subito, da quello che lui ritiene essere un pericoloso equivoco. “Si parla di guerra di religione, ma non è vero niente. La religione non ha nulla a che vedere con questi atti di terrorismo imputabili solamente alla delinquenza e ad una certa politica. Occorre possedere memoria storica e saperla usare. Forse che i Crociati uccidevano per fare nuovi praticanti? Naturalmente no. Così come gli indiani d’America che vennero sterminati nel nome, pretestuoso, del cristianesimo. I motivi era ben altri e gli stessi di adesso: possesso di nuove terre, aggressioni politiche, guadagni, mite espansionistiche. Tutti elementi i quali sono l’esatto contrario di ciò che predica ogni tipo di religione, dal cristianesimo all’islam, dall’induismo al buddismo. L’islam, poi, come le altre è tolleranza, solidarietà e non violenza. Ecco perché dico che questi terroristi sono in realtà dei comuni delinquenti senza appartenenza ideologica ma, consapevoli o no, marionette nelle mani di qualche oscuro progetto di destabilizzazione mondiale mascherato da guerra di religione tra popoli. Ricordiamoci che le dittature più feroci, come il nazismo, sono state generate e alimentate da questo modo di pensare e di agire”.

    Una matassa certamente intricata nella quale è davvero complicato tentare di agguantare il capo del filo per poterla dipanare. Eppure non serve lasciarsi sedurre dal fatalismo o, peggio ancora, cedere alla paura. Thuram è molto lucido e preciso nella sua analisi.”Partiamo da un presupposto fondamentale. Negli attentati in Francia e il Belgio non sono morti…gli altri. La gente assassinata e quella ferita fa parte della nostra comunità, della nostra famiglia. Hanno ucciso qualcuno di noi. Occorre una risposta. La società civile già l’ha data. A Parigi, subito dopo l’esplosione allo Stade de France, gli abitanti delle case intorno, intonando "allons enfants" hanno aperto le porte delle loro abitazioni per far entrare quelli che fuggivano. La risposta della solidarietà alla paura. Ora tocca alla politica dare risposte intelligenti. Alla buona politica, naturalmente, che almeno in Francia non è quella di Sarkozy il  quale definisce “feccia” chi vive nelle banlieu o, peggio ancora, quella di Marie Le Pen. La diversità non sta nel colore della pelle, ma nella differenza tra ricchi bianchi e neri e poveri bianchi e neri".

    Ma anche lo sport e, più precisamente il calcio, può rivestire un ruolo importante per dare un segnale forte a chi o a coloro che vorrebbero togliere la libertà collettiva (bianchi e neri, diversamente religiosi e atei, uomini e donne, poveri e disperati straccioni, minoranze etniche e rom) riducendoci alla paura. "E’ giusto che si giochino le partite programmate in questi giorni così come è giusto che gli Europei non vengano caratterizzati dalla vergogna degli stadi vietati al pubblico. Sarebbe altrettanto utile che ciascun giocatore desse il proprio contributo pubblico e non soltanto in campo a questa operazione di pacificazione mondiale e non violenta. Tantissimi sono i miei “fratelli” islamici che giocano in Europa. Come è avvenuto per la guerra al razzismo e a favore del rispetto reciproco, una campagna per la tolleranza religiosa e ideologica sarebbe la benvenuta. Ricordiamoci che lo sport, per sua natura, è pace, solidarietà, fratellanza, tolleranza e gioia di vivere. E’ ora dunque che anche il calcio sfondi il muro del disimpegno politico per entrare nella società civile dalla porta principale. Ricordo che, quando ero alla Juventus, Capello tutti i giorni i diceva: basta Liliane con questa cose della politica, noi giochiamo a pallone! Gli rispondevo: è vero, mister, giochiamo a pallone ma non su Marte. Siamo uomini e persone, non clown".

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