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Tornando sul caso Montaño-Nike: la maternità è ancora un diritto?

Tornando sul caso Montaño-Nike: la maternità è ancora un diritto?

  • Pippo Russo
    Pippo Russo
Venerdì Calciomercato.com ha pubblicato un articolo sulla vicenda dell'ottocentista Usa Alysia Montaño, resa nota dal New York Times. Si tratta dell'ennesimo caso che mostra quanto, ancora nel 2019, sia complicato per una donna in carriera scegliere l'esperienza della maternità senza mettere a repentaglio il lavoro e il salario. C'era la consapevolezza che il tema sia controverso e perciò divisivo. E altrettanto ci si poteva aspettare che molte risposte date dagli utenti andassero in una direzione piuttosto conservatrice (eufemismo) in materia di tutela della maternità e di doveri da parte del datore di lavoro. Tuttavia non immaginavamo di vedere emergere un clima di così vasta chiusura. Ciò che sconcerta e induce qualche riflessione.

Tali riflessioni devono partire da un interrogativo: la maternità è un diritto, o alle soglie degli Anni Venti del Ventunesimo Secolo (non del Ventesimo, o del Diciannovesimo) è ancora percepito come un privilegio, o un'esagerata pretesa, o addirittura una rapina legalizzata al datore di lavoro? Lo chiediamo senza alcuna polemica, e con l'intenzione di capire. Perché, piacciano o no, le opinioni riflettono idee e rappresentazioni che sono non soltanto individuali. Esse esprimono modi di essere e di sentire diffusi in società, e perciò vanno prese in considerazione anche se urtano i convincimenti e i valori personali. E si badi bene che “prendere in considerazione” non significa “condividere”, né “accettare”. Piuttosto, si tratta di comprendere quale sia il retroterra di valori e sentimenti che portano a assumere quelle posizioni.

Da questo punto di vista, la community di Calciomercato.com è un campione ampio, e perciò abbastanza significativo e rappresentativo delle idee e degli atteggiamenti che circolano nella società italiana. Certo, qui si parla quasi esclusivamente di calcio. E tuttavia, ciascuno approda qui partendo dal proprio vissuto e col bagaglio personale di idee e esperienze. Quel vissuto e quel bagaglio sono il filtro delle sue opinioni, sia in materia calcistica che in materia extracalcistica. Ma prima di andare oltre, è bene precisare una cosa: che, per una donna in carriera, la scelta della maternità comporta comunque sacrificare qualcosa. Perché bisogna spezzare la continuità di un percorso senza avere la certezza di riprenderlo con le stesse energie, perché durante quel periodo di pausa professionale possono mutare le condizioni e l'ambiente di lavoro in una misura tale da rendere difficoltoso il reinserimento, perché i cambiamenti nella sfera personale sono troppo profondi per non avere ripercussioni sulla sfera professionale, per tanti altri motivi che sarebbe eccessivo stare a elencare. E ciò vale a maggior ragione per una donna in carriera che sia anche un'atleta, e che in ragione di un arco temporale della carriera agonistica estremamente compresso deve affrontare un sacrificio e dei rischi molto più elevati.

Dunque, già la decisione di mettere al mondo un figlio comporta un gravame di stress e di conflitti interiori molto difficile da governare. E senza ancora avere affrontato il datore di lavoro e/o l'ambiente professionale da mettere a conoscenza del periodo di pausa. Rispetto a questo stato delle cose, il panorama che emerge attraverso molte delle risposte date dagli utenti di Calciomercato.com induce a chiedersi cosa non abbia funzionato in termini di comunicazione e sensibilizzazione rispetto al tema della maternità come diritto della donna (ma anche del partner, ché altrimenti si continuerebbe a dare una rappresentazione parziale della questione). Ci limitiamo a riassumere il tenore delle opinioni espresse. Che, va sottolineato, sono non tutte negative. Ma in gran parte, sì.

C'è innanzitutto chi, semplicemente, rivendica che il datore di lavoro non possa essere obbligato a pagare una dipendente inattiva.C'è chi aggiunge che “con la scusa che una è femmina, tutto è dovuto” (sic!).

Molti distinguono fra lo status di atlete e quello di semplici lavoratrici, sostenendo che le prime dovrebbero usare particolare accortezza in materia di maternità perché la performatività fisica è al centro del loro impegno.

Ricollegandosi al punto di sopra, alcuni sottolineano che quando le atlete firmano il contratto con lo sponsor conoscono certe clausole, e dunque poi non devono lamentarsi.

Qualcuno sostiene che, visti gli “ingaggi milionari”, bisogni accettare certi sacrifici (come se tutti gli ingaggi fossero milionari, e come se gli ingaggi milionari bastassero a giustificare certe costrizioni).

E c'è chi si spinge a dire che le atlete dovrebbero fare figli soltanto dopo la chiusura della carriera agonistica.

Poi ci sono i cinici. Quelli che “queste cose sono sempre esistite, e dunque perché ci si scandalizza ora?”. E fra costoro ci sono quelli che “queste cose succedono a tante donne che lavorano nell'ombra e nessuno dice niente, ma se invece succede a un'atleta...”.

C'è anche chi porta la testimonianza dell'esperienza negativa affrontata dalla moglie, lavoratrice in nero e dunque sfruttata e negata in ogni diritto. Costui esprime questa testimonianza per solidarizzare con Alysia Montaño? Nossignori, lo fa per rimarcare che, nel caso suo e della sua signora “nessuno si è scandalizzato”. E non possiamo che solidarizzare nei confronti di questo utente e della moglie, fatta quest'ultima oggetto di una pratica odiosa. Ma facciamo anche notare che non ci si può scandalizzare di ciò che non viene denunciato. E all'ovvia obiezione che non tutti abbiano la possibilità di effettuare la denuncia e affrontarne le conseguenze, ribattiamo che proprio per questo motivo bisognerebbe salutare con soddisfazione il momento in cui una denuncia arriva e rimette la questione sul tavolo.

Ce n'è quanto basta per capire che il senatore Pillon non venga fuori dal nulla. E che il discorso sui diritti (non soltanto quello alla maternità) stia sempre più allontanandosi dal punto fermo dell'universalismo per frammentarsi in una miriade di personalismi. È una china pericolosa per tutti. Anche per coloro che sono convinti di non essere direttamente interessati. Il diritto alla maternità, come qualsiasi altro diritto, riguarda tutti. Non dimenticatelo.

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