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  • Zenga: 'Varriale? Titolarono 'Torna il bullo di Viale Ungheria!', ne andai fiero'

    Zenga: 'Varriale? Titolarono 'Torna il bullo di Viale Ungheria!', ne andai fiero'

    • Cristiano Corbo, inviato al Salone del Libro
      Cristiano Corbo, inviato al Salone del Libro
    Walter Zenga, ex portiere di Inter, Samp e Nazionale, al Salone del Libro di Torino, presenta il suo ultimo libro: "Ero l'uomo ragno"

    LA SCINTILLA - "Il regalo di mio padre? Fu una maglia e un pantaloncino da portiere. Di Yashin. E un pallone della Serie A. Se parliamo dei tempi dell'era glaciale, quando ero bambino, c'erano due cose che mi aveva avvantaggiato: avevo il pallone ed ero il capitano, poi nessuno voleva stare in porta. Io avevo il completino e il pallone. Anche papà giocava in porta. La cosa strana, se uno crede al destino, è che lui finisce la carriera al Pro Lissone e la prima partita da allenatore è stata proprio con la Pro Lissone. Sono coincidenze che ti porti, quando hai queste cose pensi e dici: ah, ma è proprio destino". 

    IL RAPPORTO COL PADRE - "Rapporto disastroso. Il rito di San Siro? Si è separato da mia madre quando avevo 8 anni, prime volte allo stadio. Lui tifoso juventino, quindi mi portava a San Siro e mi faceva vedere l'Inter. Lo ringrazio, per fortuna l'ha fatto. E' sempre stato un rapporto conflittuale, non ci siamo mai beccati, mai il rapporto intenso che si possa avere. Ho scritto questo libro per due condizioni: ho letto la biografia di Agassi ed è fantastica. Ma c'è una cosa che mi ha colpito: inizia dicendo che lui odiava il tennis, e il padre perché lo forzava. Io invece amo il calcio, e mio padre mi ha spinto a giocare il calcio. Ho pensato: accostando ciò che mi è successo con i figli in TV a parlare di un rapporto non vero, mi sono immedesimato perché io da figlio non ho capito mio padre. Ho voluto portare questa testimonianza di padre separato, con le problematiche dei genitori del mondo, quando le cose non vanno bene. Ho voluto poi sottolineare il fatto della 'non presenza' non è una situazione volontaria, il problema è questo: se sei nella stessa città, non hai scuse. Se sei in una parte diversa del mondo, o se sei allenatore e senza giorni liberi, se sei davvero distante, allora più sei distante e più ti allontani. Anche nella coppia. All'inizio c'è questa grande connessione. Ci si sente 8 volte al giorno. Mi sono separato all'inizio e non c'erano questi vantaggi di adesso. La mia testimonianza è legata anche alla mia professione". 

    LA FIGLIA - "Vivo a Dubai dal 2010. Sono cittadino del mondo e ne sono fiero. Parlavo ieri con delle persone, una coppia con due figli. Parlavamo del rapporto tra genitori e figli, come crescono, come sono diversi. Alla mia domanda: quante ore li vedete i bambini? Loro: poche ore. Lavorano entrambi, gli orari non combaciano. Era una questione di tempo. Quest'estate sono stato a casa e ho passato tutto il tempo con i miei figli. E mia figlia, 11 anni, non mi ha visto per 2 giorni pur vivendo nella stessa casa. Lei mi ha detto: so che sei intorno a me, è importante questo. E allora non il tempo, in quantità, ma la qualità di quello che viviamo con le persone. E' necessario stare insieme dando il massimo in quel momento". 

    A 10 ANNI - "Di cose a quell'età ne impari tante. Il calcio mi ha dato la possibilità di avere il rispetto. All'epoca ci volevano 10 anni per iniziare a giocare. Quando arrivi e ti danno la borsa, il completino, le scarpe, queste te le devi portare e riportare a fine stagione. Non puoi non rispettare questi piccoli obblighi, regolamenti. Se ti convocano alle 9, non arrivi alle 9.30. Questa questione mi ha dato molta forza nel rispetto di tutte le persone con le quali mi relaziono. Sin da piccolo, quando hai obblighi, ti portano ad avere educazione, rispetto, attenzione per tante cose. Non vuol dire diventare troppo buoni, ma è imparare a vivere. Stare nelle regole e fare ciò che va fatto. A 10 anni hai quest'allenatore davanti, alto, e ti dice di fare cose: non hai scuse. E oggi questa strada si è un po' persa". 

    IL RITARDO ALL'ALLENAMENTO - "Una volta sola nella mia vita. Non mi è suonata la sveglia, oggi ne ho messe 3. Alexa, telefono e poi la musica a palla. La fortuna è che vivevo nella palazzina di fronte lo stadio, a San Benedetto del Tronto. Mi cambio veloce ed entro. Lì ci fu anche un incendio e nessuno lo menziona, morirono due persone. Lo spogliatoio era proprio dietro la porta, io esco e mi trovo Sonetti, quest'allenatore dall'aria molto burbera ma straordinaria. E mi dice: 'Bravo, complimenti, arrivi tardi un'altra volta e non giochi più'. Lui inizia a tirare e io avevo ancora il cuscino attaccato alla faccia. Ero come Sid dell'Era Glaciale. Lui mi fa tutti gol, mi insulta, mi dice che sono un "rimbambito". Seconda serie: 100% di gol. Non ne prendevo una. Mi dice ancora delle cose. Mi gira le spalle per tornare al limite e lo mando a quel paese. Si rigira e in un nano secondo scappo negli spogliatoi con lui che mi correva dietro. La squadra mi difese e Sonetti mi diceva: cretino, apri! Questo è il rapporto tra gli allenatori e i giocatori giovani negli anni Ottanta. Da giovane, in prima squadra, il mio lavoro era prendere le borse di tutti. Raccogliere ogni cosa e mettere a posto. E magari riuscivo a fare la doccia. Non so se era corretto o meno, però era questo". 

    IL SUO QUARTIERE - "Le origini non si possono mai dimenticare, chi dimentica le sue origini e non dice da dove arriva, non ha senso. Lì abita ancora mio fratello. Nella famosa lite con Varriale, il titolo di un giornale fu: 'Torna il bullo di Viale Ungheria'. I miei amici erano orgogliosi, io non mi sono offeso. Un bullo è chi fa qualcosa senza tener conto delle sue azioni, da noi è difendere chi è più debole, fa rispettare le situazioni. Io non ero stato rispettato. Contento di quella definizione. Ero felice: ce l'ho ancora a casa". 

    LA CHIAMATA DELL'INTER - "Esibivo la borsa sul tram! Le giornate? In mattino andavo a lavorare in sede, per due anni. Cioè: i dirigenti mi dicevano di prendere il caffè, portare roba. Mi permetteva di guadagnare due lire, e non era male. Mangiavo sotto la sede. Prendevo la metro, andavo ad Appiano e poi mi allenavo. La sera, a scuola. Cercai di prendere il diploma, non ci sono riuscito. Fare quella vita lì voleva dire non avere tempo per nient'altro. Era la mia routine. Non mi lamentavo: guadagnavo, giocavo nella Primavera, con l'Inter prendevi premi partita. Raccattapalle a San Siro? Mille lire. Andavo avanti e non ho deluso mio padre che, ai miei 16 anni, non mi diede i soldi per andare al cinema. Mi chiese: ma ce l'hai i soldi? Risposi: 'No!'. 'E allora non puoi fare nulla'. Mi sono rimboccato le maniche e facevo qualcosa per arrabattare due lire". 

    LA SALERNITANA - "Lì ho fatto il bullo, quello sbagliato. Ho giocato una partita, un derby importante, ho parato un rigore a 5' dalla fine, vincendo. A Salerno per tutta la settimana ero idolatrato e mi sono sentito Yashin a 18 anni, arrivato. La domenica dopo ero strapieno: facevo il fenomeno. Ho preso 2 gol in 10 minuti e ho chiesto il cambio. Mi ha fatto riflettere: riesci ad arrivare, ma è un attimo a cadere. La continuità del tuo modo di fare ti dà la possibilità di restare ad alti livelli. La colazione alle 6 del mattino? Giocavo nella Beretti, avevo perso il posto. Giocando di sabato, finiamo la partita e vado in discoteca. C'era un luogo aperto per tutta la notte. Alle 6 del mattino, entro, con questa ragazza, per fare colazione prima di andare a dormire - ma avevo già giocato, eh - e incontro il vice presidente. Mi sono sempre chiesto cosa ci facesse lui lì. Mi dice: 'Bravo, eh, rispetti gli orari'. Mi hanno multato e mandato via". 

    SONETTI E LA RAGAZZA - "La ragazza sul balcone? Una vita movimentata, come tutti. C'è stata anche qualcuna chiusa su un terrazzino: per fortuna era inizio settembre e a San Benedetto era mite. Anche se era in accappatoio... ritorno al punto di prima: oggi un allenatore non va a casa dei giocatori. All'epoca ci venivano. E se eri in due, nascondere tutto era un problema. La mia ragazza era nascosta: giocavamo in B con la Lazio, lei veniva a trovarmi da Milano al giovedì. Sonetti si raccomandava: non voleva che venisse, ma come l'avvisavo? Lui, furbo, è venuto a suonarmi al campanello e l'ho nascosta sul terrazzo".

    ATTACCO DEL PORTIERE - "Era un cross, due attaccanti alti e dovevo prendere questa palla, metterla in un punto preciso del campo per metterla in contropiede. Non andava mai là. Siamo rimasti finché non c'era buio. Ma buio pesto". 

    I MISTER - "Difficile dire chi ricordo con riconoscenza. Ricordavamo il palmarés. Ma le vittorie non ti danno fama, importanza, rispetto. E' il modo in cui fai il tuo percorso. Se ho allenato 3 anni e mezzo una squadra degli Emirati e per due anni è arrivata in Champions asiatica: per me è una vittoria, anche se non vinto. La vittoria è oggi, a 61 anni, che vado a San Siro e sembra che abbia smesso 2 anni fa. Lì fai un percorso e nessuno ti deve dare qualcosa per partito preso. Le vittorie sono queste. Sono quelle che la gente ti riconosce nel rispetto di quanto fatto. L'hai fatto con l'anima e quando giocavi per una squadra, la difendevi a prescindere. Non lo facevi per soldi: ti immedesimavi in quello. E la gente te lo riconosce". 

    DA  ALLENATORE - "Motivare i giocatori? Nel calcio la colpa è del portiere o allenatore. O mi sono rimbambito, o un genio. Magari mi sono preso i due posti che determinano tutto. Di sicuro i posti di responsabilità. Mai evitato niente: i problemi si affrontano sempre. Poi magari mi può dare una risposta negativa, ma accetto tutto. Meglio un pugno in faccia che una coltellata alla schiena. Tempi cambiati? Anche le persone cambiano. Conosci una persona a 20 anni e ti piace per com'è, dopo un po' che sei insieme si pretende che la persona non cambi. A 20 anni si ha una testa, a 25 già è diversa. Nel mondo del calcio, se una persona non s'aggiorna rimane indietro. Ma resterà sempre indietro. Non esiste più il ritiro di prima. Ora neanche ti vedono perché ci sono i vetri neri. E' cambiato tutto, il rapporto tra i giocatori è diverso. Più informazione è anche più disinformazione. Juve-Roma è un esempio: il gol annullato e il rigore. Oggi i due principali giornali di sport ti descrivono l'azione in due maniere diverse. Qual è la verità? Chi lo dice? Se hai troppe informazioni, diventi quasi disinformato. A Crotone eravamo in ritiro, molto vintage, e si faceva ciò che si faceva tanti anni fa: c'era la spiaggia, il mare, prima del Bologna mi sono tolto la tuta e mi sono tuffato. Dicendo: 'Chi crede in quello che stiamo facendo, si tuffi con me'. Si sono tuffati tutti: il gruppo era con me. Tranne uno, però. Non sapevo nuotare". 

    ESORDIRE ALL'INTER - "Difficile spiegare cosa prova un ragazzo a tifare quella squadra, fare tutta la trafila delle giovanili, andare in curva o fare il raccattapalle. Poi fare il secondo per un anno ed esordire in prima squadra, diventando un punto di riferimento. Non puoi descrivere. Non ci sono parole. C'è una differenza fondamentale: noi siamo cresciuti in queste squadre, da sempre, dai nostri 10 anni, c'era la questione di giocarti il Derby. Avevamo rispetto e sana ammirazione per gli altri. Novanta minuti da avversari, ma potevamo fare qualsiasi cosa per vincere, ma in Nazionale eravamo uniti. Prova a prendere un ragazzino da 10 anni e farlo esordire in prima squadra: non ha prezzo".

    PIRLO - "Non è che uno è stato 22 anni in una squadra ha il diritto sovrano di allenarla. Ho fatto il mio percorso, la mia squadra, se non m'ha portato dove volevo è perché ho avuto difficoltà. Altri hanno avuto opportunità perché era nel posto giusto, momento giusto, situazione giusta. In un altro incastro di situazioni, non sarebbe stato lì. Non faccio paragoni: ognuno di loro ha un valore, in una situazione positiva o negativa. Ognuno di noi ha il suo valore. Non dipende dal posto ma dalla persona che sei". 

    ULTIMO PERIODO - "Non pretendi di essere a lungo sopportato. Ma dopo 22 anni in una società, avrei preferito un trattamento differente, dove mi fosse stato detto: il nuovo allenatore preferisce tizio, è il ciclo della vita, cosa dobbiamo fare? Non mi è stato detto niente. Mancini me l'aveva detto, mi voleva portare alla Samp. Pellegrini mi disse di Pagliuca, la mia risposta si può immaginare. Ho una filosofia: per me il 'vaffa' è come il nero, sta bene con tutto". 

    NAZIONALE - "Rapporto complicato? No, non così. Racconto nel libro quando non mi trovarono. Io me n'ero andato, non ero convocato. Galli prende la febbre e Bearzot disse di chiamare me. Chiama ad Appiano e io ero andato via. Avevo pranzato e me n'ero andato. Chiamano casa e dicono: non sappiamo dov'è. Ero a St Moritz, ma avevo tutto il diritto di farlo. Ero insieme a una persona conosciuta, ma è un'altra storia. Alla fine anche non è che sia stato brutto: io quando sono di peso, saluto e me ne vado, non me ne frega. Alla fine quand'è arrivato Sacchi ho giocato 5 partite, sono l'unico ad aver giocato con Sacchi a non aver preso gol. Il Mondiale del Novanta? Nella vita puoi fare 100 cose belle, ne fai una sbagliata e tutti si ricordano quella cosa lì. Su Instagram, prima mettevo una foto e mi mettevano 100 likes, 90 messaggi e 1 mi scriveva 'ma smettila, sei scarso'... io andavo a rispondere a quello lì! Ero un cretino. Invece di rispondere ai complimenti, andavo da quello. Ho giocato 20 anni e ne avrò fatte di cazzate, quella se la ricordano tutti". 

    BELGRADO - "Forse la parentesi più bella della mia esperienza. Squadra fortissima, dirigenza tutti ex giocatori della Stella Rossa campioni del Novanta. Stadio da brividi. Esci dallo spogliatoio, fai 180 passi per andare in giù. Poi fai 5 scalini a sinistra, 5 a destra, tunnel strettissimo: la rampa e vieni fuori. Lo stadio è stranissimo: la tribuna principale è altissima e tu entri dalla strada; dall'altra parte è bassa e c'è la parallela. Fuori dal mondo. Giocammo contro una squadra croata, dopo la guerra era la prima volta con una squadra serba. Nel tunnel c'erano militari in assetto da guerra. Esperienze...". 

    PAGINE DOLOROSE - "Nella mia fantasia di bambino adulto, le persone di un certo tipo non hanno problemi. Poi c'è come li affronti. Io ero in campo e ho sempre qualcosa che ricordo delle partite. Prima della gara, siamo a metà campo, stadio pieno. E c'è una foto con me girato verso la tribuna e vedo fiamme enormi con la gente che si buttava. Avevano messo i fumogeni davanti alla rete, gli striscioni e avevano creato i coriandoli con il giornale. Uno di questi fumogeni è caduto, ha raschiato e ha fatto la scintilla, che ha incendiato tutta la carta. E la gente si è buttata in campo e sono morte due persone. Era il 7 giugno del 1981. Nessuno se lo ricorda. Ed è stato bruttissimo giocare una partita con quell'immagine dentro. E' stato terribile. Non mi ricordo niente. Non abbiamo festeggiato, nulla, niente di niente. Ci avevano detto che c'erano dei feriti leggeri". 

    FRATELLO ALBERTO - "Vivo in un periodo musulmano: hanno diritto a 4 mogli, io sono a 3. Ma anche basta. E' finita. Non se ne parla più. Mio fratello è la parte sana della famiglia, da 28 anni con sua moglie, ha una figlia e io cinque. Sempre stato in Viale Ungheria. Ha lo stesso lavoro da quando ha iniziato a lavorare e l'ha fatto diventare più grande e interessante. Ha delle radici, io sono il pazzo scatenato. Mi ha sempre dato il bilanciamento, la parola giusta, anche le notizie brutte. Lui è me al contrario. Per me le famiglie sono formate da genitore e figli, marito e moglie possono cambiare, muoversi, un gioco a chi dura di più. Fratelli, parenti... ho questo concetto".

    RAPPORTO CON IL TIFO - "Io ero un ultras, praticamente. Chi meglio di me poteva capire, condividere determinate situazioni. A prescindere nessuno ha disconosciuto mai il tifo della Maratona: tutti avrebbero voluto per sé. Poi altri hanno la personalità che si gasano davanti ai fischi. Mi è capitato di vedere un filmato mio, completamente rimosso, della finale di Uefa del 1991. Avevo avuto sempre un'attenzione verso quelli della curva. Li vogliono far passare per negativi, ma venite a fare le trasferte come le facevamo noi, le cose come le facevamo noi. E mi fermo qua...". 

    TALENTO SPRECATO - "Sì, ce ne sono tanti. Nomi non ne faccio. Uso sempre una mia frase, la dedico ai ragazzi vicino a me: vivi per il calcio e non usare il calcio per vivere. E' una sottile differenza. Oggi è molto facile avere immediatamente un qualcosa che ti fa rilassare mentalmente, ti fa dire che sei arrivato e vai in giro. Questo fa la differenza. Ti dico questo: ho fatto esordire Sirigu in A, lui ha sempre vissuto per il calcio. Ancora oggi è lo stesso che ho conosciuto lì. Ha la stessa mentalità. Molti hanno talento, ma attraverso continuità e attenzione non riescono ad avere grande futuro. Se parliamo dei più importanti, vedi Ibra: 40 anni. Cristiano ne ha 38. Giocano ancora? Sì, ed è giusto così. Se hanno questa passione è giusto così. Per arrivare a essere loro devi farne di strada".

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