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    Allegri sull'ottovolante: in pochi minuti è passato dalla ragione (in campo) al torto (fuori)

    Allegri sull'ottovolante: in pochi minuti è passato dalla ragione (in campo) al torto (fuori)

    • Massimo Callegari
      Massimo Callegari
    E così, come Tippi Hedren, la protagonista de “Gli Uccelli” di Hitchcock, Massimiliano Allegri è finito accerchiato sulla sua panchina dalla moltitudine di nemici, molti reali e altri presunti/immaginari. Stritolato dalla pressione, è crollato sul traguardo, vittima della strategia del “corto muso” che lo ha sempre fatto viaggiare sul filo della tensione. Come nella trama del grande regista, metafora della solitudine e dell’abbandono.

    LA FINEIl suo secondo ciclo bianconero si chiude così nel modo peggiore: ri-accolto dai profili social della Juventus con la cartina del Minnesota, dal nome del cavallo che aveva ispirato la sua progressione nel calcio professionistico, se ne va dopo una vittoria meritata ben più dell’1-0 conclusivo. Ma sempre con il brivido finale. L’adrenalina come compagna di viaggio anche quando se ne sarebbe potuto fare a meno.

    NEL BENE - Questo racconta la sua storia juventina
    , fatta di vittorie sulla sirena o quasi in tanti snodi decisivi: il sinistro di Zaza contro il Napoli per lo scudetto 2016, la paratona di Szczesny su Schick al 94’ di Juve-Roma e il 3-2 di Higuain contro l’Inter per quello del 2018, la rasoiata di Pirlo nel primo derby allegriano. E via di corsa nel tunnel, dove avrebbe fatto bene a fiondarsi direttamente anche l’altra sera all’Olimpico dopo l’espulsione di Maresca.

    E NEL MALE - Tante altre volte, però, gli è andata male: l’errore di Evra a Monaco e la precipitazione di Benatia al Bernabeu hanno cancellato due delle migliori prestazioni della sua Juve in Champions; lo sciagurato Alex Sandro ha lasciato il pallone sul destro di Sanchez al 121’ della Supercoppa 2021 mentre Allegri già pensava ai calci di rigore, lo sventurato Bremer ha regalato il penalty del pareggio all’Inter nella semifinale di andata di Coppa Italia 2023. Quella sera i muri dello Stadium tremarono ben oltre la baraonda finale, scossi dalle urla rabbiose di Max. Che pure nella finale di Coppa Italia di due anni fa, sempre contro l’Inter, al culmine di una gara con errori e omissioni anche dell’arbitro Valeri, passò dalla parte del torto con una reazione spropositata contro panchina e giocatori avversari. 

    GASP BATTUTO - Proprio come gli è accaduto alla fine della sfida contro l’Atalanta, in cui aveva annichilito il più celebrato collega Gasperini mostrando ai suoi iper-critici che il ruolo dell’allenatore non si ferma al movimento delle pedine sulla lavagna ma è anche molto altro: è manipolazione delle tante anime che popolano uno spogliatoio, è studio dei punti deboli dell’avversario, trasformismo tattico, gestione della pressione, comunicazione, politica “interna” ed “estera” (cit. Ettore Messina, qui Allegri poteva fare meglio). La Juventus, pur con alcuni protagonisti alla prima finale della carriera (Bremer, Iling, Nicolussi Caviglia, Cambiaso, Gatti, Miretti e Yildiz da subentrati) l’aveva gestita meglio dell’Atalanta, che ha pagato nuovamente la scarsa abitudine/attitudine dell’ambiente e dell’allenatore, oltre che dei giocatori, alle partite che assegnano trofei. I bianconeri hanno creato più occasioni, sopportato decisioni arbitrali avverse, saputo soffrire nel finale in situazioni che per loro sono considerate “normali” e che altri allenatori (Italiano dixit post semifinale di ritorno a Bergamo, pur in 10) non esitano a definire “agonia”. Con onestà intellettuale vanno riconosciuti meriti all’allenatore per i progressi di personalità/serenità e di tecnica di Vlahovic, mai così efficace di destro in zona gol, e di mentalità dei ragazzi della Next Gen. 

    SOFFRO LO STRESS - Allegri ha saputo modulare i livelli di stress della squadra ma non i suoi. Lo si può capire dopo mesi/anni di attacchi mirati ma comunque non lo si può giustificare. Ha incamerato troppa irritazione, nervosismo e insoddisfazione per chi gli stava vicino e lontano: alla Continassa, sui giornali, in tv, sui social network. E incredibilmente, nel momento in cui avrebbe potuto celebrare con soddisfazione il trofeo tanto agognato, i nervi lo hanno abbandonato. Ha mancato di rispetto agli arbitri, ai giornalisti e ai suoi dirigenti, come era già accaduto almeno un’altra volta a inizio stagione, con un altro dirigente importante e davanti a membri dello staff tecnico. Non ha insomma onorato l’immagine del suo club, di cui pure per mesi è stato ombrello e parafulmine, più gestore che allenatore, nel senso buono e non dispregiativo della definizione. È passato dalla ragione (sul campo) al torto (fuori, durante e dopo). Aveva vinto, ma è riuscito a perdere. 
     

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