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  • Baggio, come te non c’è nessuno

    Baggio, come te non c’è nessuno

    • Marco Bernardini
    “Dimmi, quanto ti manca il calcio?”. E’ la classica e banale domanda di alleggerimento che viene posta a coloro che hanno smesso di giocare. Altrettanto scontata e banale la risposta: “Sento molto l‘assenza del profumo dell’erba, dei fumi nello spogliatoio, del calore della gente”. In linea di massima l’esternazione, più o meno identica per tutti, contiene un fondo di verità.  Non tutta la verità. Anzi, solamente una parte di esse assai piccina. Del resto non sarebbe carino rispondere che l’assenza più forte, per chi ha appeso le scarpe al chiodo, consiste in altre tipologie di lontananza: il denaro che arrivava a cascata, naturalmente, ma soprattutto il bisogno ormai inarrivabile di sentire sulla pelle l’irresistibile fascino del protagonismo e della popolarità. Pulsioni legittime, per carità, perché assolutamente umane e radicate nell’abitudine a vivere sotto le luci della celebrità. Modelli, però, anche rischiosi perché in caso di fallimento il contraccolpo può anche portare alla nevrosi o alla depressione.
     
    Un pericolo che i “lavoratori del pallone” non hanno mai corso fino agli anni Settanta. Quando smettevano di giocare, se erano stati oculati nella gestione dei soldi guadagnati (una miseria rispetto ai patrimoni attuali) mettevano su un bar, aprivano un negozio di articoli sportivi, una stazione di servizio, un autosalone oppure un’agenzia di assicurazioni. Il background professionale, infatti, non era granché. La maggioranza aveva abbandonato gli studi per giocare a pallone e pochissimi si erano preoccupati di iniziare a crearsi un “dopo” mentre facevano calcio. Dagli Anni Ottanta in avanti il “movimento” assume fisionomie del tutto diverse e anche inattese. Il “giocattolo” si gonfia ed esplode con fragore trasformandosi in un evento sociale e di costume epocale. Anche il calciatore muta velocemente e si adegua.

    Rammento Pietro Paolo Virdis. Quando giocava nella Juventus, la mattina si presentava al campo Combi con sotto il braccio la mazzetta dei quotidiani: Repubblica, La Stampa e Tuttosport. E la gente si stupiva per il fatto che un calciatore potesse leggere anche giornali non sportivi. Sui pullman e sugli aerei delle trasferte cominciavano a circolare anche dei libri importanti oltre ai fumetti e ai rotocalchi di gossip. Stava nascendo la generazione i calciatori acculturati o, quantomeno, informati. E anche ricchi. Molto ricchi. Quindi determinati a “imparare” per potersi amministrare con buon senso. Dalla parlantina sempre più disinvolta per sostenere il dialogo con le televisioni. Disponibili ad avventure extra calcio ben remunerate dalla pubblicità e dalle ospitate negli show più popolari. Era la figura del “calciattore”.

    Normale che un’esistenza così fortemente “dopata” dal successo e sostenuta dai simboli più tradizionali del “parvenu” diventi un grosso problema nel momento dell’abbandono per tempo scaduto. Specialmente per chi ha raggiunto e persino superato certi limiti di fama. Ecco allora i recenti ed eclatanti “casi” di Totti e di Del Piero i quali, seppure economicamente in pace, non riescono a staccare la spina che li lega al barnum del calcio spettacolo in senso ampio. L’elenco sarebbe lunghissimo, contrappuntato da successi e fallimenti assortiti. Da Gianni Rivera che scende in politica a Stefano Tacconi che ci prova con il cinema. Dallo yogurt di Ciro Ferrara ai camei di Giancarlo Antognoni nei film di Pieraccioni. Ventura e i suoi granata invitano a guidare giapponese. Per il momento, sul set ha sfondato il solo Eric Cantona e non è italiano. Molti altri hanno saltato il fosso e, come commentatori o opinionisti, si sono affiancati ai loro “nemici” giornalisti di un tempo. Quelli con la vocazione e le capacità giuste fanno gli allenatori. Quelli con il senso per il business hanno preso il patentino da procuratori. Insomma, l’importane è esserci e, soprattutto, farsi notare. Un bello stress, però!

    Una “malattia” che un solo campione, oggi a riposo, ha saputo evitare con cura. Dico di Roberto Baggio e della sua storia magica di fuoriclasse dal volto sempre umano che ha saputo replicare con la stessa misura di magia nella vita di tutti i giorni dal momento in cui ha smesso con il pallone. A parte un breve spot per un’azienda di latticini in tempi ormai lontanissimi, Roby vive un’esistenza davvero invidiabile sotto il profilo della serenità circondato unicamente dalle persone e dalle cose che dovrebbero avere un valore assoluto per ciascuno. Una fattoria esemplare ed ecocompatibile nella campagna di Caldogno che lui stesso lavora piegando la schiena. La sua splendida tribù composta da Andreina e dai suoi figli. Un gruppo di amici assai ristretto e per questo assolutamente fedele. Le sue uniche uscite, lontano, in Argentina per soddisfare il “vizio” della caccia. La presenza costante del suo “maestro” Vittorio Petrone. La risposta pronta a chi gli chiede quanto gli manchi il calcio: un sorriso, muto, che non ha bisogno di alcuna interpretazione.

    E dire che a Baggio non sarebbe dispiaciuta l’idea di potersi adoperare per far crescere il “movimento”. Specialmente quello dei ragazzini che lui adora. Ma quando si accorse che gli uomini del Palazzo lo avevano fatto andare a Coverciano soltanto per usarlo come monumento e temperamatite ha velocemente declinato quel compito di uomo-immagine che a lui dà fastidio. Forse, soltanto con Massimo Moratti, Baggio si renderebbe disponibile per una nuova e seria avventura. Dovrebbe riguardare i bambini e i ragazzini da avviare al gioco del pallone. Mezze promesse, per ora.

    Naturalmente, oltre alla predisposizione naturale di Baggio verso questo tipo di vita che può sembrare ascetica ma che è solamente sana, esiste un segreto di partenza. Si trova tra le pieghe di una frase ripetuta come un mantra (“Nam-nyoho-renge-kyo”) inginocchiati davanti al Gohonzon, da soli o in compagnia, al mattino appena svegli e alla sera prima di andare a letto. Il “mandala” buddhista che, grazie al suo amico e guida Petrone, Baggio incontrò venticinque anni fa e che gli fece esclamare: “Questi sono tutti matti”. Impiegò poco, per, Roby a capire che matto sarebbe diventato lui in quel mondo del pallone che aveva sempre considerato un gioco senza seconde finalità. Capì, leggendo gli insegnamenti del Siddartha, che la felicità e la serenità non si ottengono con il raggiungimento dei traguardi stabiliti dall’uomo e dalla sua ambizione. Ciò provoca soltanto dolore e sofferenza perché non ci si accontenta mai e si pretende sempre di più. Chiamarsi fuori dalla scena e da sotto gli spot bollenti che possono bruciare è l’unica via per vivere veramente. Così come è unico Roberto Baggio.

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    Marco Bernardini
     

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