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  • Bernardini: Allegri, non siamo a teatro. Quanto mancano Conte e Tevez

    Bernardini: Allegri, non siamo a teatro. Quanto mancano Conte e Tevez

    Mai mi venisse concessa l’opportunità di scegliere se andare a cena con Allegri piuttosto che con Conte non avrei la minima esitazione. Deciderei di condividere il tavolo con l’attuale allenatore bianconero. Sono infatti certo che verrebbe fuori una serata rilassante e moderatamente alcoolica nei termini consentiti dal buon senso, corredata di ottimo cibo e confortata da discorsi mirati a vari temi della vita. Il tutto a voce bassa in un’atmosfera molto british. Se poi della compagnia facesse parte anche il comune amico Galeone al clima conviviale verrebbe aggiunta una bella spruzzata di peperoncino. Al contrario, con Antonio Conte la medesima cena tanto per  stare un poco insieme allentando la tensione magari anche con le classiche quattro cazzate filerebbe via in tutt’altro modo. Monocorde e persino maniacale. Non perché Antonio sia una persona noiosa e priva di argomenti interessanti, ma perché (già lo era quando lo frequentavo come giocatore della Juventus) ciascun pensiero e ogni osservazione, tra una portata e l’altra, riguarderebbe il lavoro. E, alla fine del desinare lo stress accumulato l’avrebbe vinta sulla necessità primaria di trascorrere un paio di ore in santa pace. Per informazioni dettagliate chiedere alla signora Conte e. Questione di carattere, naturalmente,  di come si è per vocazione naturale e di come si può diventare strada facendo.

    Naturalmente, una partita di pallone non è una cena tra amici. Oggi più che mai è una sorta di “risiko” per adulti un po’ fuori di melone che pur arrivare alla vittoria sono obbligati a dedicare loro stessi, in maniera pressoché esclusiva, allo studio delle strategie da far applicare in campo ai giocatori  i quali, loro volta, sono costretti a vivere in una stato di fibrillazione emotiva e psicologica sette giorni su sette. Un atteggiamento, quello dell’allenatore full time, il cui padre spirituale è senza dubbio Arrigo Sacchi. Da Paolo Maldini a Franco Baresi, da Ruud Gullit a Marco Van Basten ciascun campione del grande Milan diretto dal tecnico di Fusignano avrebbe da scrivere un romanzo infarcito di gossip e di eventi al limite dell’umana ragione rispetto al rapporto interpersonale (fuori e dentroil campo) tra giocatori e tecnico. Non solo al Milan, comunque.

    A Madrid, dove Sacchi era andato per allenare l’Atletico, ancora oggi i vicini di casa di Arrigo ricordano le notti trascorse in bianco a causa del casino di rumori provenienti dall’alloggio dove quel curioso personaggio italiano urlava al telefono o spaccava stoviglie ululando in preda ad agitazione da stress. Sacchi è un caso speciale. Antonio Conte,, in quanto a maniacalità, un poco gli somiglia. Resta il fatto, incontestabile che per avere fortuna massima nel calcio di oggi occorre comportarsi come il cittì e non come un allenatore sul genere di Allegri il quale talvolta mi ricorda un autentico signore della panchina come Giacomini che osservava la partita con o stesso “aplomb”di chi si  trova a teatro. E diceva: “I giocatori sono professionisti e sanno cosa fare”. Concetto piuttosto illusorio perché i giocatori che sono certamente professionisti sono anche astuti “figli di buona donna” disposti a pratiche masochistiche pur di liberarsi di qualcuno a loro sgradito. L’esempio della resurrezione del Bologna dopo appena tre settimane dalla cacciata di Rossi e dall’arrivo di Donadoni è addirittura clamoroso.

    Tornando ad Allegri e alla sua Juventus, onestamente debbo dire che non vi sia in atto nessun tipo di ammutinamento sotterraneo e le ultime tre vittorie inanellate in fila dovrebbero permettere di pensare positivo. Invece a differenza delle stagioni passate (quelle della gestione Conte tanto per essere  chiari) ho la netta impressione che l’utenza bianconera non esca a fine gara  dallo “Stadium” con il volto felice e la pancia piena di buon calcio. Al momento ci ha pensato Paolo Dybala a togliere le castagne dal fuco pima che bruciassero. Ma l’argentino è sceso in campo perché, soprattutto, imposto dal popolo juventino e non per ferma convinzione di Allegri il quale, in precedenza, aveva già dato via libera a Coman. L’insistere, poi, su Hernanes vuole dire essere capatosta e non ammettere di aver voluto a tutti i costi un trequartista inutile. Mandzukic, da parte sua, è l’ombra del campione che giocava in Germania. Morata soffre psicologicamente questo continuo dentro-fuori e spera di potersene tornare in Spagna. La squadra intera gioca al rallentatore anche perché non c’è più l’Apache Tevez che quando intuiva il calo di tensione si faceva gladiatore e contagiava i compagni. Era lui il portavoce di Conte in campo. E fu sempre lui che l’anno scorso, uscendo per ordine di Allegri, non si mise la classica mano sulla bocca per evitare di farsi leggere il labiale mentre si rivolgeva al suo allenatore per dargli del “cacasotto”.


    Marco Bernardini

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