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    Conte e Mourinho non sono più da top club: oggi le società vogliono allenatori che possono controllare

    Conte e Mourinho non sono più da top club: oggi le società vogliono allenatori che possono controllare

    • Simone Eterno
      Simone Eterno
    C'era una volta il "manager" e "l'aziendalista". Perché sì, le due macro categorie nel mondo degli allenatori, fino a qualche tempo fa, erano in sostanza queste due. Concetti ritraducibili in comportamenti, ma soprattutto metodi di approccio dentro la vita di un club. Gli allenatori che non rompevano mai le scatole ai dirigenti, adattandosi a fare con ciò che veniva deciso dall'alto; alzando - casomai - la mano di tanto in tanto per portare qualche timida obiezione. E i cosiddetti "manager". Figura e definizione che nel calcio è figlia di due entità tanto differenti quanto chiare nella loro paternità del concetto: da un lato la dilagante anglosassonizzazione della lingua e della cultura occidentale, soprattutto nei luoghi di lavoro; e dall'altra l'esplosione del mito di Sir Alex Ferguson, a lungo padre e padrone di una squadra che tra la metà dei '90 e fino ai primi anni '10 è stata un punto di riferimento nel mondo del calcio: il Manchester United.

    Sulla scia del mito di Sir Alex, tante società si sono affidate ad allenatori capaci di "dettare la linea" sotto ogni aspetto. Tra quelli con maggior successo l'Arsene Wenger a lungo uomo solo al comando dell'Arsenal, ma su questa falsa riga anche il Fabio Capello vincente a Roma, fino ad arrivare all'esempio più recente: quel José Mourinho che tra Chelsea e Inter, con questo tipo di gestione, fu il lampante esempio di come 'un uomo solo al comando' - purché fosse quello giusto - potesse cambiare storia, percezione e soprattutto palmares di un club.

    Quel che sembra raccontarci questo strano inizio di campagna estiva 2024, ma che in fondo si respira già da almeno tre o quattro estati, è che il tempo dei "manager" sembra sia davvero in scadenza. Via le personalità ingombranti alla Mourinho anziché alla Conte - da mesi fermo ma alla fine in vero contatto solo col Napoli nonostante le rivoluzioni sulle panchine di Chelsea, United, Liverpool, Barcellona, Bayern Monaco, Juventus e Milan -; e dentro una nouvelle vague di giovani manager che rispondono a due sostanziali caratteristiche:

    1. L'inclinazione a un certo tipo di calcio (entreremo più nel dettaglio a breve);

    2. Malleabilità dal punto di vista societario.

    E partiamo proprio da quest'ultima. Perché in fondo lo scriveva anche il Telegraph in Inghilterra già qualche giorno fa: i club moderni vogliono allenatori che possono controllare meglio. Ed è difficile dare torto a questo teoria. La multisettorialità su cui si sviluppano oggi i principali club mondiali - soprattutto quelli in Premier League - non possono prescindere da un lavoro di squadra in cui scouting, data analysis, iniziative legate al mondo del marketing e dello sviluppo del prodotto che vada al di là del mero risultato del campo, vadano di pari passo con colui che alla fine è chiamato a gestire la rosa della prima squadra. Ma non solo. Devono essere - gli allenatori - entità che lavorano in connubio, persone che remino nella stessa direzione dentro società che da semplici club si sono trasformati in aziende con fatturati da multinazionali. È anacronistico credere da questo punto di vista che una figura da sola possa dettare la linea per tutti.
     
    È vero anzi il contrario. Un allenatore appetibile è un allenatore in grado di lavorare con tutta questa serie di figure che oggi popolano gli uffici di un grande club, in un'integrazione di conoscenze - gli anglofoni lo definirebbero 'know how' - che alla fine è la vera chiave di tutto. Un allenatore che detta linea, appunto, imponendo le sue scelte di mercato, i suoi paletti, o anche il suo modo di impostare una determinata strategia comunicativa, appare come una figura obsoleta. E non è un caso che figure giovani e/o alle prime esperienze, siano improvvisamente balzate all'onore delle cronache. La scelta di Arteta all'Arsenal fece da apripista. E oggi, sulla scia di quella che è anche la scuola calcistica dominante dal punto di vista del pensiero e dei risultati - quella formatasi sotto Pep Guardiola -  vediamo Enzo Maresca o Vincent Kompany catapultati su due delle panchine più prestigiose del mondo: il Chelsea e il Bayern Monaco. Maresca e Kompany però rappresentano perfettamente i due concetti sopra citati. Una certa malleabilità dal punto di vista societario essendo figure alle prime esperienze, ma al tempo stesso rappresentati di quel 'certo tipo di calcio' cui facevamo riferimento. Perché in fondo poi qui si arriva.

    La rivoluzione imposta da Guardiola ormai più di quindici anni fa ha cambiato le regole d'ingaggio del pallone; che nel mentre - come tutte le entità vive - è mutato dando vita a molteplici sfumature e interpretazioni del suo credo iniziale fatto di possesso infinito e controllo del pallone. Che si sia andati però - e si vada tutt'oggi - verso quella direzione, a volte anche esasperandone le interpretazioni e trasformandole in storture, è una realtà evidente a tutti. Giusta o sbagliata che possiate ritenerla, la strada e i risultati portati dal guardiolismo rimangono evidente ambizione di tanti. E chiunque metta il naso anche fuori dal professionismo, guardando il calcio fin dai primissimi settori giovanili, si sarà accorto come il pallone sia totalmente trasformato rispetto a quello di 20 anni fa. Collettivo - anche a discapito della giocata individuale, con tutto ciò di negativo che questo ne comporta - sono concetti che hanno soppiantato l'idea che a lungo abbiamo conosciuto fino ai primi anni 2000. Collettivista - o moderno aziendalista, a questo punto, potremmo definirlo - è il tipo di profilo che sta andando a soppiantare quel manager di fergusoniana natura; perché l'individualismo oltre che in campo, evidentemente, si è fatto obsoleto anche fuori.

    E non è un caso allora che un vecchio volpone come José Mourinho, per una vita rappresentate tipico della figura del manager, abbia recentemente dichiarato proprio al Telegraph, con parole che suonano a metà tra il paraculo e il puro istinto di sopravvivenza, come alla Roma fosse stato "obbligato a dover fare da figura a tutto tondo", e di come nella prossima esperienza voglia "essere solo un head coach"; in italiano un semplice capo allenatore. Certo, dal suo punto di vista servirebbe anche una bella rivoluzione alla voce "calcio proposto", ma al di là di questo aspetto queste parole di Mourinho sono davvero un bell'indizio sull'aria che si respira: il mondo del calcio ad altissimo livello sta dando la sensazione di voler eliminare gli allenatori ingombranti, gli uomini che vogliono dettare la linea. Con che risultati, beh, lo capiremo in futuro.
     

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