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  • L'ex Juve Padovano: 'Rischiavo di tornare in carcere. Il calcio è ipocrita, mi ha voltato le spalle. Vita distrutta'

    L'ex Juve Padovano: 'Rischiavo di tornare in carcere. Il calcio è ipocrita, mi ha voltato le spalle. Vita distrutta'

    L'ex attaccante della Juve Michele Padovano, arrestato il 9 maggio del 2006 nella sua casa di Torino e accusato di essere promotore e finanziatore di un traffico internazionale di droga, ha parlato a Corriere.it. dopo la sentenza della Cassazione che dice che il processo è da rifare: 

    Che valore ha questa sentenza?
    «Sento di aver ritrovato la fiducia nella giustizia. Ormai temevo di non avere più speranze, ma in cuor mio non mi sono mai rassegnato. È inaccettabile pensare di finire in carcere da innocente. So che non è finita, ma ho molta fiducia nel nuovo processo d’appello. Sono convinto che riuscirò a dimostrare che non sono un trafficante di droga».

    Cosa le ha portato via questa brutta storia?
    «Tutto. Quando sono venuti ad arrestarmi ho pensato che fosse uno scherzo. Non riuscivo a crederci. La mia famiglia è stata distrutta, ma insieme abbiamo trovato la forza di reagire. Ho perso il lavoro e ho dovuto dire addio al calcio, che era la mia vita».

    Come è stata l’esperienza del carcere? 
    «Sono stati tre mesi difficili, ma ho trovato tanta umanità. Gli altri detenuti hanno capito subito che quello non era il mio posto. Ero spaesato e il mio compagno di cella mi ha aiutato molto. Ancora oggi ci scambiamo qualche messaggio».

    È stata una sua scelta allontanarsi dal rettangolo verde? 
    «All’epoca dell’arresto non giocavo più, ma facevo il dirigente. Da quel momento nessuno mi ha più voluto. Questa esperienza mi ha fatto scoprire il lato ipocrita del calcio. In molti mi hanno voltato le spalle. Ho provato a rientrare: c’era chi si rifiutava di darmi un appuntamento e altri che mi facevano accomodare nei loro uffici per poi dirmi che non c’era posto. Nessuno però ha mai avuto il coraggio di dirmi in faccia perché mi tenessero a distanza. L’avessero fatto, l’avrei apprezzato. Non giudico questi comportamenti, ne prendo semplicemente atto».

    Se lo aspettava? 
    «No, perché io non lo avrei fatto. Ma va bene così: non ho nulla di cui vergognarmi, a differenza di altri».

    Cosa le manca del calcio? 
    «Lo spogliatoio, la complicità e la chimica che si creano con i compagni di squadra».

    Le piacerebbe rientrare in quel mondo, nonostante tutto?
    «Sì, e intendo riprovarci quando questa storia sarà finita. La mia vita è racchiusa in un pallone, certe passioni sono stampate nel Dna. Rinunciare è stato difficile e vorrei avere la possibilità di riscattarmi, di riguadagnare tutto ciò che ho perso».

    Lei è finito nei guai per colpa di un amico d’infanzia. 
    «È un’amicizia che non rinnego. Eravamo inseparabili. Gli sono stato vicino e questo ha fatto sì che molte cose venissero fraintese. Ma lui ha sempre detto che io non c’entravo nulla con il traffico di droga».

    È pentito di questo legame? 
    «Nella vita non si può tornare indietro. L’esperienza vissuta mi ha insegnato che forse avrei potuto essere più attento e prudente, ma lui era il mio migliore amico. Però quello è il passato. Guardo al presente e vivo pensando al futuro».

    Cosa ha provato quanto ha saputo della sentenza della Cassazione?
    «Forse esagero, ma dopo la nascita di mio figlio è stato il giorno più bello della mia vita. Ho pianto con la mia famiglia»

    E se dovesse paragonare questo momento a un gol?
    «A quello contro il Real Madrid, in Champions. Fu un momento fantastico, ma non c’è paragone con la possibilità di far valere la propria innocenza».

    L’appello è la partita più importante della sua vita? 
    «Sicuramente. Ma questa volta il risultato non dipende solo dalla mia prestazione».

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