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  • Io, la Juve e la valigia di Gianni Mura

    Io, la Juve e la valigia di Gianni Mura

    • Marco Bernardini
    A salutare Cesare, in Sant’Ambrogio, c’era anche Gianni Mura (nella foto di minimaetmoralia.it). Non lo incontravo da un po’ di tempo. Da poco prima che venissimo “pensionati”, lui da “La Repubblica” e io da “Tuttosport”. Un rivedersi gradevole e senza troppe cerimonie farisaiche frutto di tipiche e meschine rivalità pregresse tra colleghi in quotidiana e fatale competizione.  “Tiremm innaz” come amava scrivere il suo mentore Gianni Brera. “Pensionati che lavorano”, tutto sommato meglio così. Il cervello non va in pappa. Almeno ci si prova. 

    Ormai Gianni, anche fisicamente, è più breriano che di più non si potrebbe. Per certi versi incute schegge di timore, oltreché di legittimo rispetto. Io, poi, gli sono creditore da anni. Non per denaro, ma per un colpo gobbo di quelli che passano alla storia tra gli imprevisti da evitare nelle pagine di chi li ha vissuti. Sarà anche per questo motivo che ho l’impressione di essere osservato con sospetto come se, da lì a un momento, si aspettasse un’altra delle mie. Insomma, mi guarda e si piazza in guardia come il boxeur al centro del ring. Sono giorni di Champions e comunque di Coppe. Sono giorni di stitichezza calcistica quasi insopportabile per chi ebbe a vivere giornate internazionali memorabili e invece, ora, deve stare davanti alla tv per vedere il colore di altre maglie che non ci appartengono con dentro uomini che non sono i nostri. 

    Certamente la Juventus, come il Milan e anche l’Inter, ci avevano abituati male. Cioè bene perché, sia come tifosi o come giornalisti al seguito, in qualche angolo d’Europa alla fine ci si ritrovava sempre. Io, principalmente, ero destinato a seguire Madama. Gianni Mura anche. Tempi eroici del Trap e poi anche dopo. Si  partiva il lunedì di mattina presto e si tornava mediamente il giovedì. Con calma e con anche il tempo di poter vedere qualcosa che non fosse un campo da calcio in città che mai avresti sognato di poter visitare. L’atmosfera era un poco quella da gita scolastica e lavorando ci si divertiva. Poi, talvolta, arrivavano giorni e momenti che la trasferta diventava un peso anziché un una gioia professionale. Sicchè, anche soltanto a livello inconscio, cercavi di scantonare. Non accadeva spesso, ma qualche vota sì. 

    Ad esempio, un bel po’ di anni fa, quando la Juve doveva andare a giocare una inutile partita di ritorno a Rjieka in quella che era ancora la Jugoslavia. Premessa indispensabile. Oltre ad avere il terrore delle malattie (più del dolore fisico che non del male, comunque) riesco a somatizzare talmente bene al punto da farmi venire la febbre anche se sono sano. Ed è proprio ciò che riesco a fare il lunedì mattina all’aeroporto di Torino Caselle mentre, con la squadra già imbarcata, siamo in coda per salire sul charter. Sto male, anzi malissimo. Lo dico ai colleghi e soprattutto al dottor Francesco La Neve, una pasta d’uomo che è anche il medico sociale bianconero. Insomma io non parto. Già, ma il bagaglio? Naturalmente è da un bel po’ nella stiva dell’aereo. Lo voglio. Lo pretendo. Ho cose importanti in valigia. 

    Percepisco sulla pelle l’odio dei colleghi infuriati per il ritardo, ma ormai non posso tornare indietro. Il comandante autorizza lo sbarco della mia valigia. L’afferro, salgo su un taxi e torno a casa.
    Prima di cacciarmi a letto (la febbre sono riuscito a farmela venire) apro la valigia. Ma che roba è questa? Dai pedalini alle mutande, dai pantaloni alle camicie, dai libri ai bloc notes tutte cose a me sconosciute. Non solo. Assolutamente inusabili perchè di almeno due taglie più grandi. Io allora ero un chiodo. Gianni Mura già piuttosto ben messo come stazza. La valigia era la sua. La mia nella sua camera di Hotel, a Rijieka. Esternamente identiche. Vi risparmio le cose che, giustamente, Gianni mi dice al telefono. Una cosa non mi hai mai voluto rivelare, in tutti questi anni. Come e in che modo sia riuscito a cavarsela, per tre giorni, senza manco il suo spazzolino per i denti. Io, intanto, sto in campana. Gianni è una persona mite e per bene, ma quando lo incontro ho sempre l’impressione che prima o poi deciderà di farmela pagare.

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