
Sogno e Incubo, l’Inter di Lippi: l’attacco più forte di sempre in mano al mito della Juventus. Finì a calci nel sedere
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Ossimoro: accostamento di due termini di senso contrario o comunque in forte antitesi tra loro. Esempi? Illustre sconosciuta, silenzio assordante, ghiaccio bollente, Marcello Lippi e l’Inter. L’avventura dell’allenatore viareggino in nerazzurro è stata una parentesi nata bene, sviluppatasi male e finita nel peggiore dei modi. Dopo aver lasciato la Juventus, Lippi dice sì alla corte di Moratti e diventa interista con tutti i presupposti del caso per riportare il club di Milano agli antichi fasti. Ben presto si capirà che l’unione tra due elementi così diversi, come acqua e olio, non potrà portare ai risultati sperati e scivolerà nel tragicomico fino a finire in uno scoppiettante addio.
ARRIVEDERCI JUVE – Una sola stagione per Marcello Lippi alla guida dell’Inter (1999/2000) e qualche scampolo iniziale di quella 2000/2001, un’annata partita tra fanfare, proclami e aspettative altissime e scoppiata come una bolla di sapone. È la primavera del 1999 quando il toscano si promette ai nerazzurri. Qualche mese prima, a febbraio, dopo una cocente sconfitta interna col Parma in una stagione da dimenticare, Lippi si era dimesso da allenatore della Juventus. Giovane tecnico emergente, tra i più promettenti che il panorama calcistico italiano stava portando alla ribalta, Lippi era arrivato a Torino nel 1994, raccogliendo la pesante eredità di Trapattoni. Qui era restato al timone per quattro anni e mezzo marchiando uno dei cicli migliori del club: 3 Scudetti, una Coppa Italia, una Supercoppa Uefa, due Supercoppe italiane, una Champions League vinta e due finali perse, una Coppa Intercontinentale. Poi la fine del ciclo, la stagione no e l’addio – provvisorio – alla Vecchia Signora. Era tempo di nuove sfide, di nuove avventure e nessuna poteva promettere meglio di quella all’Inter, a secco da anni di vittorie, con una rosa a 5 stelle extra lusso e tutte le promesse per tornare al trionfo.
L’INTER – E l’Inter? Come arrivava la squadra di Moratti a questa sliding door? Male. Quella 1998/1999 era stata una delle annate più deludenti di sempre per i nerazzurri, pur reduci da un momento di grande spolvero in Europa e da titoli sfiorati e combattuti fino alla fine proprio contro la Juventus. Quella pre Lippi però fu una stagione horror: si passarono il testimone addirittura 4 allenatori. Da Simoni a Lucescu, dall’ex preparatore dei portieri Castellini al ritorno di Hodgson. Risultato? Un amaro ottavo posto, uno spareggio per l’Uefa perso con il Bologna, una semifinale di Coppa Italia e un’eliminazione ai quarti di Champions per mano del Manchester United. Un fallimento su tutta la linea che aveva spinto il figlio di Angelo a dimettersi da presidente pur mantenendo la carica di patron. C’erano macerie ovunque: serviva cambiare, serviva affidarsi al migliore in circolazione. “Mi sta bene essere qui come il più bravo, significa che il mio lavoro è stato apprezzato. Non faccio promesse, non sono né stupido, né coraggioso. Ma nella mia testa c’è lo Scudetto, da uomo di mare so che dopo la tempesta arriva il sereno”, si presentò così Lippi nella prima conferenza stampa. Un avviso ai naviganti.
IL MERCATO – Quella che Lippi si prendeva tra le mani era sì una patata bollente ma poteva diventare un’enorme occasione. D’altronde Moratti aveva allargato i cordoni della borsa e costruito una squadra, sulla carta, ai limiti dell’imbattibile. Basti pensare “solo” alle 90 miliardi di lire (69 + Simeone) versate alla Lazio per portare a Milano Bobo Vieri in quello che era, fino a quel momento, il trasferimento più oneroso di sempre – quell’anno furono proprio i biancocelesti poi a vincere lo Scudetto. In maglia nerazzurra poi Lippi si era portato alcuni suoi fedelissimi: erano arrivati infatti Peruzzi e Jugovic dalla Juventus oltre a Panucci e Georgatos, a Blanc, Domoraud e Di Biagio. Avevano fatto invece le valigie Bergomi, Simeone e Djorkaeff, Pagliuca e Frey, Galante, Silvestre, Pirlo, Cristiano Zanetti, Ventola e Kallon. Alcuni sacrificati nella rivoluzione lippiana, altri mandati in prestito. Non si fecero tanti prigionieri, neanche con alcuni simboli dell’interismo come Bergomi e Pagliuca. A gennaio poi partirono West, Dabo e Sousa e arrivarono anche Cordoba, Seedorf e Mutu a rinforzare una rosa che comprendeva anche, tra gli altri, Zanetti, Moriero e un parco attaccanti tra i più forti di sempre nel nostro campionato - e non solo. Oltre al già citato Vieri, c'erano Ronaldo, Baggio, Zamorano e Recoba. Con tanti auguri alle difese avversarie.
UN UOMO SOLO AL COMANDO – L’Inter era, giustamente, tra le favorite alla vittoria del titolo nonostante una squadra cambiata per gran parte e l’arrivo di un nuovo allenatore di certo non ben visto dall'ambiente fin dall’inizio per via dei suoi trascorsi. Lippi decise di intraprendere questa grossa sfida con un pigio quasi dittatoriale. Aveva avvocato su di sé un potere decisionale quasi assoluto, cosa di cui non poteva godere a Torino per la presenza della triade Moggi-Giraudo-Bettega. Una delle sue prime frasi alla Pinetina fu: “Non permetterò a nessuno di rovinare il mio lavoro. Chi rompe, lo prendo e lo butto fuori”. E seguì questo mantra.
PRIMA PARTE DELLA STAGIONE – A dir la verità l'inizio dell’Inter lippiana non fu neanche da buttare: la squadra arrivò al primo posto della classifica alla quinta giornata grazie a 4 vittorie nelle prime 5. Poi, dopo le prime difficoltà, la truppa allestita da Lippi si sciolse: arrivarono 3 sconfitte e un pari, un solo punto in quattro gare tra la sosta di ottobre e quella di novembre. Ko a Venezia, nel derby, col Bologna. Si capì ben presto che l’esperimento fosse destinato a fallire. A dargli una spinta verso il baratro arrivò poi l’infortunio del giocatore più forte in rosa.
INFORTUNI E CRISI – In occasione della vittoria contro il Lecce, il Fenomeno Ronaldo si procurò una lesione parcellare del tendine rotuleo destro. Stagione di fatto finita, non rimise piede in campo prima della primavera. Quando lo fece, cinque mesi dopo, in finale di Coppa Italia, sul campo della Lazio, Ronaldo s'infortunò nuovamente e ancora più gravemente: il brasiliano si rivide solo nel settembre 2001. Quella parvenza di squadra che si intravide nelle prime uscite evaporò e andò incontro a tremende batoste. Come non citare quella del 18 dicembre ‘99 a Bari con l'esplosione del talento di Antonio Cassano o quella per 0-4 del 7 maggio 2000 dalla Fiorentina che passeggiò a San Siro e costrinse l’Inter alla prima sconfitta in casa con quattro reti di scarto nel campionato a girone unico. Alla fine del girone d’andata l’Inter era sesta, lo Scudetto un miraggio, un posto in Champions l’unico modo per salvare – si fa per dire – la stagione. Dopo il mercato di gennaio e con un Seedorf in più nel motore, l’Inter sembrò potersi rialzare. Lippi aveva cambiato modulo, era passato alla difesa a 3 e le stava provando tutte per rimettersi in carreggiata. Vinse anche il secondo derby, si inerpicò fino al terzo posto, prima di sprofondare ancora. In primavera perse a Lecce e Udine, poi con la Juventus: a metà aprile, i nerazzurri erano di nuovo sesti. Nel rush finale Zanetti e compagni riuscirono ad arrivare al quarto posto, in coabitazione con il Parma. Per decidere chi sarebbe andato in Champions League serviva lo spareggio: al Bentegodi, brillò la stella più lucente, quella di Baggio che, da separato in casa, portò i suoi al 3-1 che qualificava l’Inter ai preliminari.
POLVERIERA – Fischi, contestazione, ambiente infuocato: furono questi i trait d'union della stagione. Polemiche interne ed esterne, rapporti tumultuosi tra staff tecnico e giocatori: tra il 1999 e il 2000 in casa Inter non ci si fece mancare nulla. Lippi entrò in conflitto con Vieri, con cui però finì per chiarirsi, e soprattutto con Panucci e Baggio, esautorandoli di fatto dagli undici che scendevano più spesso in campo. Il terzino finì ben presto e con costanza fuori dalla lista dei convocati – in seguito accusò l’allenatore di avergli fatto perdere Europei e Mondiali – l’attaccante invece fu tenuto in una sorta di limbo per tutta la stagione a causa dei tanti infortuni occorsi a Ronaldo e Vieri e che quindi lo rendevano utile, almeno numericamente. Pur riluttante a farlo giocare, Lippi si dovette affidare al Divin Codino in alcuni momenti topici e Baggio seppe rispondere sempre con la sua consueta classe in campo.
BAGGIO – Quello tra Lippi e Baggio non fu un rapporto complicato, fu guerra aperta. Davanti alle telecamere, negli spogliatoi, in campo, i due passarono l’intera stagione a punzecchiarsi. L’ex Bologna era un panchinaro. Gli veniva preferita la coppia Vieri-Ronaldo – che pure durò molto poco – e l’idea di utilizzarlo solo part time gli fu spiegata fin dall’inizio. “Alla Juventus dissi che non volevo una squadra Baggio-dipendente, lo ripeto oggi per Ronaldo e per tutti. Baggio avrà spazio in relazione alla tattica che adotteremo”, disse Lippi. La tensione era palpabile ed esplodeva anche in innocue amichevoli del giovedì come una col Saronno a novembre, durante la quale giocarono i meno utilizzati. “Qui nessuno si dà da fare oltre un certo limite, è insopportabile", attaccò il mister; "Sono tranquillo, mi sono impegnato dal primo all’ultimo minuto e detesto le accuse generiche. Lippi faccia i nomi dei lavativi", rispose la punta. Nella sua biografia, quello che poi diventerà un giocatore del Brescia a fine anno, rivelò un atteggiamento di completo ostracismo verso di lui. "Nel ritiro estivo avevo a malapena il diritto di respirare. Dovevo mangiare quello che diceva lui, si infuriava per un dribbling di troppo, se un compagno mi applaudiva lo faceva nero. Giorno dopo giorno una guerra, a partire dal primo incontro, quando mi chiese di fare i nomi di chi la stagione passata aveva remato contro. Io i nomi non li feci, non li ho fatti mai in vita mia. Ogni sua provocazione aveva l’unico risultato di fortificarmi. Più colpiva basso, più stringevo i denti e volavo alto". Baggio giocò solo una volta per 90 minuti, nello spareggio col Parma, fu titolare soltanto cinque volte. Quando veniva sostituito, come nella già citata debacle con la Fiorentina, se ne andava direttamente negli spogliatoi, senza salutare lo staff tecnico. Il punto di massima tensione poi si toccò dopo una trasferta di fine gennaio in casa del Verona. Con mezzo attacco fuori, Lippi preferì il nuovo arrivato e giovane di belle speranze, Adrian Mutu, a Baggio. Sotto nel punteggio, lo inserì e ribaltò in men che non si dica la gara. Era la vittoria del Divin Codino. Nel post gara si presentò a parlare coi giornalisti indossando un cappellino con la scritta “Matame si no te sirvo”, ossia "Uccidimi se non ti servo". A buon intenditore poche parole. Nella sua biografia spiegò. “Anche prima di quella partita, Lippi mi chiamò per dirmi che avrei fatto meglio ad andare via dall’Inter, che non servivo, non c’era proprio spazio. Me lo diceva con tono sicuro, arrogante, sperava di farmi perdere la calma. Io, se voglio, la calma non la perdo mai. Non ho aperto bocca per tutto l’incontro: stavo davanti a lui, con le braccia incrociate, e lo fissavo negli occhi. Lui, non vedendomi reagire, ripartiva con la sua litania”.
BILANCI – Paradossale, ma poi neanche tanto in una stagione da film, che fu proprio Baggio a “salvare” Lippi con una doppietta nello spareggio col Parma. A obiettivo raggiunto, Roby disse: “Non so se questa partita gli abbia salvato la panchina, non era questo il mio proposito, quello che fa Lippi non mi riguarda. Io avevo chiesto una cosa sola: la chiarezza. Si vede che poi lui ha cambiato i suoi programmi”. Lippi contrattaccò sorprendendosi del fatto che il suo giocatore avesse “distribuito fiori a tutti e pugnalato solo me”. La stagione comunque era finita e le strade destinate a dividersi. Come detto l’Inter era arrivata quarta, era qualificata alla Champions League mentre la Coppa Italia era sfumata nella doppia finale con la Lazio. Andata vinta 2-1 dai laziali, nella sera del tragico infortunio di Ronaldo, ritorno a San Siro, con i biancocelesti che ancora festeggiavano lo Scudetto, chiuso sullo 0-0. Altro che trionfi, fu una stagione incolore. Ma non fu l’ultima.
2000/2001 – Lippi chiese la risoluzione del contratto a Moratti che rifiutò e gli diede ancora fiducia. Il viareggino avrebbe allenato l’Inter anche nella stagione 2000-2001. “Prevedo per il nuovo campionato l’innesto di cinque o sei giovani, possibilmente italiani, gente forte e che non veda l’ora di giocare, anche solo 10 minuti. Avevamo una squadra nuova, con tanti arrivi scaglionati nel tempo e posso dirmi soddisfatto del risultato finale, la base per costruire una grande squadra c’è. Se non abbiamo raggiunto certi risultati è anche per colpa dei gravi infortuni di Ronaldo e Vieri”, disse in vista della sua seconda chance. Arrivarono Cirillo, Pirlo (di ritorno da un prestito), Brocchi, Ferrari, Michele Serena, Macellari, Gresko, Vampeta, Farinos, Robbie Keane, Hakan Sukur. A posteriori, un disastro quasi senza precedenti. Nei preliminari di Champions, l’Inter inciampò in casa degli svedesi dell’Helsingborg (1-0) all’andata mentre al ritorno la rimonta si fermò su un rigore sbagliato da Recoba nel finale. Dopo una corsa affannosa per strappare l’ultimo posto, l’avventura nel massimo trofeo della squadra di Lippi era già finita tra i fischi dei tifosi che videro poi la loro squadra perdere, ancora con la Lazio, anche la Supercoppa Italiana. I nerazzurri passarono il turno in Coppa Italia e Coppa UEFA prima di partire anche in Serie A, in un campionato slittato a ottobre per le Olimpiadi.
LO SFOGO – Il malcontento intanto già divampava. Lippi litigò con Recoba che si lamentava di giocare troppo poco. “Da un mese ha assunto un brutto atteggiamento nei miei confronti e non lo capisco”, commentò. L’uruguaiano invece si disse scontento di essere scivolato indietro nelle gerarchie, di non sentire la fiducia del tecnico e di volersene andare. In questo calderone già infuocato arrivò la prima partita del campionato 2000-2001, a Reggio Calabria, contro la Reggina. Segnò proprio il Chino, rimontato poi da Possanzini e Marazzina. Al termine della gara, è il 1° ottobre 2000, Lippi sbottò e regalò ai giornalisti uno sfogo destinato a diventare celebre. “Non esiste che facciamo partite di questo tipo. Non è giusto nei confronti di nessuno, di chi ci paga e di chi ci viene a vedere. Fossi io il presidente, manderei via subito l'allenatore. Prenderei i giocatori, li attaccherei tutti al muro e li prenderei a calci nel sedere”. Fu il de profundis della sua avventura all’Inter. Venne cacciato da Moratti che chiamò Tardelli per un’altra stagione più da dimenticare che da ricordare. Fu l’anno dello 0-6 nel derby col Milan, quello dello scooter lanciato dagli spalti di San Siro. I nerazzurri lo conclusero al quinto posto, uscendo al terzo turno di Champions League, agli ottavi di Coppa Uefa, con l’Alaves, e ai quarti di Coppa Italia con un 1-6 dal Parma. Dal canto suo, meno di un anno dopo l’addio all’Inter, Lippi tornò alla Juventus reduce dal deludente biennio con Ancelotti. Vinse subito e portò a casa lo Scudetto del 5 maggio 2002, un’ulteriore beffa per i nerazzurri. “Che soddisfazione vincerlo con i bianconeri quanto tutti pensavano che lo vincesse l’Inter”, avrà poi modo di dire. Il titolo fu bissato 12 mesi dopo nell’annata della finale di Champions League persa con il Milan. Il terzo anno del suo secondo ciclo portò poi a un terzo posto e a un addio ormai annunciato. Ma ormai – e sempre più dopo il fallimento in nerazzurro e la nuova epopea bianconera – Lippi si era cementato nella storia della Juventus.
L'EPILOGO – Dal tradimento per essere passato alla rivale storica al riscatto a Torino, la parentesi di Marcello Lippi all’Inter fu un bug del sistema, un errore frutto di un terreno comune che mai fu trovato, di due strade che non si incrociarono e preferirono restare nella propria comfort zone, senza venirsi incontro. Sbagliò l’ambiente nerazzurro che mai lo accettò del tutto e sbagliò il mister che neanche ci provò a farsi amare. I suoi 504 giorni – un anno e pochi mesi – da interista passarono via come una sorta di tragedia annunciata, una valanga che, giorno dopo giorno, assumeva contorni sempre più grandi fino all'inevitabile schianto. Il metodo Lippi non attecchì alla Pinetina. Furono bruciati milioni e milioni per giocatori sopravvalutati, se ne sprecarono altri per incomprensioni in uno spogliatoio diviso fin dall’inizio e nel quale mancavano leader come quelli di cui si era deciso di fare a meno a inizio campionato. La squadra mal digerì il modo di giocare con Lippi e il suo modo di porsi. "Lì non ero ben visto perché difendevo la mia juventinità, questo per loro non andava bene. Ad Appiano non feci molto bene, nessuno accettava il mio modo di giocare. A Torino ho vinto perché lavoravamo più e meglio di tutti. In carriera ci sono alti e bassi. Ho avuto tantissimi alti, l'Inter è un basso, come altri che ho avuto. Era una grande squadra, un grande ambiente, ma non è andata benissimo, tutto qua", disse. Lippi voleva dare all’Inter la mentalità vincente della Juve ma non aveva capito come fosse controproducente dare ai nerazzurri i bianconeri come modello da seguire. Certo, il rimpianto della agognata coppia Ronaldo-Vieri resterà per sempre. "Entrambi nel pieno, a 26 anni, una roba da urlo. Tra infortuni vari, però, insieme avranno giocato tre partite", disse. Ma la sensazione è che, qualora avesse avuto loro due e chissà quanti altri campioni, il risultato finale non sarebbe poi cambiato di molto. L’Inter e Lippi si annusarono, non si capirono, non decisero di mettersi alle spalle il passato in virtù di un bene superiore e finirono per fare a botte.