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  • Da Rivera-Mazzola a Sacchi vs Trap, quando Milan-Inter diventa epica
Da Rivera-Mazzola a Sacchi vs Trap, quando Milan-Inter diventa epica

Da Rivera-Mazzola a Sacchi vs Trap, quando Milan-Inter diventa epica

  • Matteo Quaglini
La partita dei grandi fuoriclasse, dei generali da panchina e di magici eretici. Milan-Inter o Inter-Milan, tanto è uguale per la proprietà transitiva, sempre luci a San Siro sono come cantava Vecchioni. Quelle stesse luci suggestive e brillanti che hanno emanato per anni, campioni indimenticabili: istrioni alla Aznavour o pirati e signori, del  pallone alla Julio Iglesias. La partita di Rivera e Mazzola. Due leggende lì in quei 90 minuti sublimi e meneghini, non incastonate in una staffetta messicana di polemiche memorie. Ma liberi di esprimere talento e disciplina, che vanno insieme nel racconto del dio pallone milanese. Uno, Golden boy designato da ragazzo già all’indomani dell’esordio in Serie A proprio contro il Milan nel lontano 1959, quando l’altro grande Gianni di settentrionali racconti difendeva l’ortodossia del calcio all’italiana e dell’atletismo, descrivendo Rivera come abatino. L’altro, figlio di uno dei più grandi giocatori se non del più grande, secondo il racconto dei vate del giornalismo sportivo italiano. Giocava rapido e sgusciante nell’Inter euro-mondiale di Don Helenio. Capitani ed entrambi fuoriclasse. Icone dei grandi Milan e Inter degli anni sessanta.

Gli anni in cui il derby di Milano era la partita d’Italia dopo che la Juventus di Charles, Boniperti e Sivori si era fatta da parte per via della naturalezza dei cicli storici e, la grande Milano dell’imprenditoria editoriale di Rizzoli e degli affari petroliferi di Angelo Moratti ne aveva ereditato lo scettro e il fascino sublime e immortale della vittoria imperiale. Un fascino però che era soprattutto europeo. Milan-Inter era la grande partita di Coppa Campioni proiettata nel campionato italiano, un evento mai più ripetuto nella storia del nostro calcio (i derby di coppa del 2003 e 2005 sono dentro l’attimo, non dentro la storia). Milano come capitale del calcio continentale, negli anni del Real Madrid di Puskas e Di Stefano e del Benfica della pantera nera Eusebio. Immaginate cosa sarebbe oggi se fosse lo stesso nel decennio di Cristiano Ronaldo e Lionel Messi quale suggestione, quale nuovo Sacro Romano Impero d’occidente eretto per eleggere tra i campioni milanesi del Milan e dell’Inter, il portoghese e l’argentino il redivivo Carlo Magno del pallone. Suggestioni solo immaginate, in una notte di scrittura. Allora furono tre Coppe dei Campioni consecutive, quella del Milan a Wembley (la prima del nostro football) nel 1963 e, quelle di Vienna e San Siro della Grande Inter contro il Real Madrid del maestoso Di Stefano nel ‘64 e sul Benfica già attanagliato dalla maledizione di Bela Guttman, nel ‘65. E ancora una semifinale nel 1966 (Inter) e due altre finali tra Inter e Milan culminate a Madrid dove Rivera e Prati svezzarono un certo Ajax e un certo Cruijff, nell’anno delle rivolte giovanili. 

Una partita epica di generali e gitani. Herrera e Rocco. Il mago, H.H, l’iperbole nella letteratura dell’epoca e il Paron, il grande conoscitore d’anime umane. Due gli attimi magnificati da Brera, depositario del racconto di questo incredibile romanzo milanese: Milan-Inter 3-1 del novembre 1961, che lanciò Rocco verso lo scudetto al primo tentativo e Inter-Milan 5-2 della primavera 1965, quando Herrera e la vecchia guardia napoleonica al suo servizio recuperarono 7 punti al Milan di Liedholm già Barone. E fu scudetto assegnato in una memorabile foto sul pallone d’oro (pubblicazione dell’epoca ed enciclopedia del calcio) da Rivera a Mazzola. Già Liedholm. Fuoriclasse e campione col Milan da allenatore nel ’79. Il pater patrie che tornò nel 1984 a Milano per ridare competitività e struttura ad un Milan anonimo e grigio. Allora la situazione era quella di oggi con due squadre incapaci di vincere da cinque anni un titolo italiano. Milano aveva lasciato la scena a Roma, in uno dei tanti trait d’union con gli anni dei giorni nostri.
Il Barone preparò la zona per il Milan olandese e la linea difensiva che con movimenti ripetuti sarebbe diventata tanto impenetrabile e internazionale con Sacchi, quanto invincibile con Capello.

Quei derby erano grandi e ancora una volta europei. Da una parte il Milan europeista e rivoluzionario dell’Arrigo luterano, dall’altra il fordismo meccanico ma offensivo di Trapattoni, milanista della memoria. Derby manichei, nella Milano del socialismo al governo. E nell’Italia dell’opulenza effimera e del campionato più bello (e irripetibile?) del mondo. Due su tutti, i derby dello scisma calcistico: quello in cui il Milan di Sacchi finalmente consapevole di se vinse 2-0 nell’aprile ’88, preparandosi all’epica del San Paolo “maradoniano” e quello già mirabilmente raccontato su queste pagine del novembre successivo, uno 0-0 tra i più suggestivi e importanti per il valore delle squadre. La grande Inter dei tedeschi (Matthaus, Brehme e Klinsmann) e il visionario Milan degli olandesi del tutto è possibile (Gullit, Van Basten e Rijkaard). Una Austerlitz nel segno dei tre imperatori, come allora.

Gli eretici completano il quadro alla Salvador Dalì del derby di Milano. Un carrellata: Ronaldo, Simeone, Donadoni, Baggio, Pirlo, Ancelotti, Mourinho, Boban, Savicevic, Vieri, Ronaldihno, Diaz, Berlusconi e Moratti e gli altri metteteceli voi. Una carrellata e un attimo, doppio: quando Ronaldo con un pallonetto affonda la seconda era capelliana al Milan e poi nove anni dopo torna e da milanista segna il gol dell'illusorio vantaggio, ultimo acuto grande in una carriera magnifica e sfortunata. Se il derby di Milano è un racconto epico, il finale non possono che scriverlo i tifosi veri depositari della memorabilia. Allora milanisti e interisti da generazioni, com’è e cos’è il derby oggi?

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