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  • Juve e Roma alla pari. Inter, Medel e M'Vila: uno è poco, due sono troppi

    Juve e Roma alla pari. Inter, Medel e M'Vila: uno è poco, due sono troppi

    • Marco Bucciantini
    È difficile filtrare Juventus-Roma da tutti gli episodi che hanno elevato Rocchi a protagonista. E trovare così la polpa di una partita tanto attesa, costruita perfettamente dalle due squadre con le cinque vittorie precedenti, ma bruciata dai troppi incendi appiccati qua e là. Dopo alcune ore non si riesce ancora a valutare l’esattezza dei rigori mentre è più chiara la tremolante gestione di altre cose (molte punizioni invertite e cartellini usciti di tasca senza un filo logico e coerente). I sensi di colpa hanno avvilito l’arbitro: ondeggiava come una barchetta in mezzo al mare, ogni fischio sembrava rimediare al precedente, creando una catena di errori più o meno decisivi. 

    Nel vaglio di quanto accaduto, insistiamo solo sul primo rigore assegnato perché serve a una riflessione più generale. Il rigore fischiato sul gomito di Maicon che si ripara il volto è anticalcistico. Si può perfino tralasciare la cavillosa interpretazione: se aumenta o no il volume dell’opposizione al tiro di Pirlo: pare di no. Si può perfino evitare di misurare il punto esatto (ancora non c’è certezza su dove s’incontrino la palla e il corpo, nemmeno dopo millanta replay). Ma è giusto e doveroso generalizzare: proteggersi in barriera è istinto umano di conservazione, non può rientrare nella casistica dei falli. Non è come allargare un braccio, o usare la mano (anche involontariamente) per fermare un’azione o ritrovare equilibrio: in barriera spesso si salta voltandosi, offrendo il colpo al tiro, e riparando volto e parti intime, senza nessun’altra intenzione. Quella palla avrebbe preso Maicon in testa, per essere chiari. Non è possibile gravare gli arbitri di un’interpretazione così difficile, e pretendere poi che non si scada nella discriminazione. Detto questo, la valutazione di Rocchi si cumula alla collocazione incerta di Maicon (dentro, fuori l’area): insieme, sembrano un po’ troppe incertezze per trasformarle in rigore. Ma Rocchi è stato aiutato a sbagliare: da troppe e complicare regole, da assistenti più confusi di lui, che nel corso del match hanno mancato altre semplici verità. Da quel momento, Rocchi ha rincorso la partita, atteggiamento perfetto per sommare errori. E i calciatori hanno vissuto tutto con la stessa angoscia, con lo stesso vittimismo e la stessa arroganza della presunta giustizia rinnegata. Certo, non sarebbe intellettualmente onesto lasciare il conto in sospeso: i tifosi della Roma devono dormire con qualche torto di traverso al sonno, non c’è dubbio. 

    La partita, allora. Vederla al di sopra degli episodi è come disossarla. Però va fatto, perché è stata una bella lotta, piena, alterna. Ha raccontato di due squadre fieramente rivali, vicine, la Roma è cresciuta in personalità rispetto ai recenti viaggi a Torino, la Juventus deve ritrovare Vidal per aggredire meglio l’area e usare con più serenità Morata, meno manovriero di Llorente, ma adesso assai più pimpante. In presentazione, nell’ultimo pezzo, avevamo avvertito del rischio maggiore per la Roma, costretta tatticamente ad abbassarsi per trovare spazi alle sue fughe: con la Juventus il guaio è di smarrire troppo campo. È successo solo negli ultimi venti minuti, ma è successo. Solo in questo moncone di partita la Juventus è stata più forte: ha prodotto una traversa, un gol di un difensore, una serie di calci d’angolo. Niente di eccezionale, ed era impossibile per una squadra prevalere nettamente sull’altra, ma è quel poco che ha fatto il risultato. Nel resto del match, equilibrato, la Roma era sembrata più fluida. Era riuscita a pareggiare la Juventus sul piano fisico e Garcia aveva tolto di partita Llorente, chiedendo ai centrali una spudorata partita d’anticipo (Manolas, enorme), con il sostegno di Keita. Perso Llorente alle sponde e al lavoro di possesso palla lassù, era più complicato per gli altri avvicinarsi all’area, anche per Tevez. Per essere però pericolosa con un po’ di continuità, la Roma ha dovuto però attendere che Gervinho capisse la partita, gli spazi, i tempi. Quando è accaduto, la squadra ha corso, Totti ha trovato passaggi lineari, e i difensori della Juventus hanno dovuto lavorare sodo, e non sono abituati. Il miglior momento della Roma è stato però turbato dal secondo rigore di Tevez e dalla mancanza di cinismo, specie in avvio di ripresa. 

    I cambi hanno tolto, invece che aggiungere. Iturbe non aveva una partita intera nel serbatoio, ma quando è uscito riusciva ancora a scappare via benissimo dopo la riconquista del pallone da parte dei mediani e offriva alla manovra l’alternativa a Gervinho. Dopo il cambio con Florenzi, la Roma non si è più allungata dalla parte destra. Garcia non ha avuto niente nemmeno dal cambio fra Totti e Destro, troppo distante dal resto della squadra (tatticamente, e anche emotivamente, è parso). Paredes poi è entrato in campo – al posto di un deludente Pjanic – con la stessa afflizione del bue che va al gancio. I cambi hanno diminuito la squadra, non è una contestazione a Garcia, che usa benissimo l’organico, ma una critica verso i protagonisti mancati. Anche nella trasferta inglese di Champions la Roma si era ridimensionata sul finale, dopo un predominio tattico evidente: certe sfide però non permettono passaggi a vuoto. E la Juventus non aspettava altro che potersi sentire forte. Ha saputo soffrire, ha aspettato, lottando dove poteva e come poteva, con gli esterni imbrigliati, il centravanti tagliato fuori. Ma la Juventus sa vivere tutti i momenti di un match alterno. Retoricamente, la forza della Juventus è tautologica: è forte perché sa (o crede) di essere forte, e lo è anche quando la partita rivela altro. Lo sanno gli avversari, e gli arbitri, e i giornalisti. È chiaro che una forza così corroborata fa più effetto e sconquassi in Italia, mentre va rinforzata all’estero con dimostrazioni più pure. Ma torniamo al finale di gara, quando Morata finalmente ha aiutato Tevez nel possesso palla, e anche gli altri giocatori si sono potuti avvicinare all’area della Roma e rinfacciare a Garcia quel baricentro che via via si era abbassato. Superate le preoccupazione delle volate giallorosse, anche i difensori si sono spinti, e non solo sui calci d’angolo, che aumentavano a vista d’occhio. Senza dare mai l’impressione di quella potenza così viva in altre occasioni, anche per lo spessore degli avversari, la Juventus ha però conquistato il campo. Il gol di Bonucci è inficiato da Vidal, e perfino sui fuorigioco ci sono troppi criteri interpretativi: una semplificazione permetterebbe agli arbitri di sbagliare meno e a tutti noi di riconoscere spudoratamente l’errore, per rinfacciarlo senza timore. 

    Resta una partita che eleva per distacco due squadre dal resto del gruppo, una rivalità che sembra all’inizio e non alla fine, come invece la confina il fatalista Totti. Rispetto alle partite dello scorso campionato, la Roma è riuscita a tenere più distante dall’area la Juventus, combattendola fisicamente in molte zone del campo un tempo di proprietà dei bianconeri. Iturbe può offrire a Garcia un’ulteriore genesi di gioco e di finalizzazione, i nuovi difensori fanno già reparto anche con pochissime partite giocate insieme, De Rossi e Strootman aggiungeranno praticità e spessore. La Juventus ha vinto ritrovando Pirlo, e Tevez si è nutrito con il pane che sfama i campioni, i gol. Allegri ha un po’ di margine per aspettare Llorente e Barzagli, e intanto deve osare qualcosa, per mettere a profitto la superiorità della sua squadra: sperimentare nuove linee, muovere di più l’attacco. Non bisogna aspettare le necessità per azzardare soluzioni nuove, altrimenti poi sembra disperazione, e così viene trasmessa all’ambiente. Ecco, in una frase lapidaria e conclusiva questa partita ha rivelato ala Juventus il dovere di “aggiornarsi”, di migliorare ancora con nuove soluzioni tattiche, di rinfrescarsi con nuovi protagonisti perché la Roma è ormai allo stesso livello. 

    Resta la voglia di parlare di Lazio e Milan, che da un po’ seguiamo con la curiosità che meritano i tentativi nuovi. La Lazio è più squadra: nei movimenti, nei meccanismi, nell’applicazione. Il Milan è più animato, quasi frammentato, ma coraggioso. Sono due squadre che giocano un calcio “naturale”, anche se dentro schemi diversi, più strutturata l’una, si è detto, e più spontanea l’altra. La continuità è il prossimo valore da raggiungere per Pioli e Inzaghi. 

    Di Fiorentina-Inter si potrebbe parlare altrettanto che di Juventus-Roma, e non ci sono arbitri a mediare il giudizio. Cuadrado e Babacar hanno restituito aria all’attacco viola. Sono andati al tiro (e al gol: e che gol) da tutte le posizioni del fronte. Dall’altra parte, Icardi e Osvaldo continuano a costipare il gioco, affogandolo in pochi metri, e poche lotte (ma qui l’alibi è pronto: Palacio non sta bene, dice Mazzarri). A centrocampo, Montella ha letteralmente usato Kurtic in posizione alta, sulla destra, per tenere Dodò occupato, e sottrarlo alla marcatura di Cuadrado. Gli altri tre (Mati, Aquilani e Pizarro) bastavano per governare il palleggio. L’Inter non ha replicato con nessuna complessità: Medel e M’Vila imbottiscono la mediana fino a farla scoppiare di robustezza: c’era una strepitosa battuta su due comici d’altri tempi, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia: “uno è poco, due sono troppi”. Per Medel e M’Vila è un po’ la stessa cosa. Così Kovacic deve preoccuparsi di cucire il gioco da solo, ovunque, palla al piede: roba da matti. L’Inter non funziona, c’è poco da ragionarci intorno, la palla non gira, non ci sono uomini smarcati, non ci sono corse, non c’è campo da dominare, e adesso non c’è nemmeno tenuta. Tutto è faticoso e fragile. Le vittorie sono “provvisorie”, e dopo una carriera passata a imprimere un marchio alle sue squadre, e a difenderlo con i risultati, Mazzarri sembra non essere riuscito a incastonare i giocatori nella sua (unica) idea di gioco. Sicuramente, l’Inter non abita il campo con la personalità che quella maglia vuole, impone. Ritrovato anche il Napoli, l’Inter è in fondo l’unica squadra ambiziosa che manca ancora al campionato: difficile vederla anche all’orizzonte. Mazzarri fa capire che è un problema fisico (dunque superabile), si perdono i duelli a tutto campo perché si arriva in ritardo, lo dice e non lo dice, “e meglio parlare poco”, forse è vero, forse è poco. 
     

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