Redazione Calciomercato
Totti, Del Piero, Maldini e Ibrahimovic, per fare i dirigenti serve competenza. Essere bandiere non basta
- 95
Davvero curioso il destino, che nello spazio di poche ore ci regala l'intervista all'insegna della polemica contro la Roma dei Friedkin di Francesco Totti e poco più tardi una serie di “attacchi incrociati” diretti a Zlatan Ibrahimovic. Finito nel bersaglio della critica per un inizio di avventura da dirigente tutt'altro che all'insegna della serenità e sul quale – dalle pagine della Gazzetta dello Sport – si è espresso un pezzo da novanta della storia rossonera come Zvone Boban: “Non ho capito cosa fa, quali sono le sue responsabilità e le sue competenze per poterlo giudicare. Spero le abbia capite lui, perché alla fine, sarà lui quello giudicato, mica Moncada”.
BOBAN NE HA TUTTI, CHE FRECCIATA AD IBRA
Durante la gestione americana di Pallotta, Totti è stato un volto più che altro di rappresentanza in una Roma che necessitava di alleggerirsi di un debito ereditato dalle proprietà precedenti e che, pur attraverso un player trading insistito, ha saputo mantenere un alto livello di competitività sia in Italia che in Europa, pur senza essere ricordata per la conquista di titoli. Non potendo così assecondare i desideri di Totti di avere sempre più campioni all'interno della squadra. L'ex capitano, che ad un certo punto gettò la spugna (era il giugno 2019), non ha mai nascosto negli anni di non aver gradito il trattamento riservato ad una bandiera della sua grandezza. Una bandiera, a suo dire, usata come specchietto per le allodole e poi ammainata per la seconda volta – dopo il tormentato fine carriera di calciatore – senza troppi riguardi. Totti tanto ha parlato e anche nelle ultime ore non si è sottratto ad un'analisi sul complicato avvio di stagione dei giallorossi, guidati da un amico fraterno come Daniele De Rossi. Un De Rossi che probabilmente avrebbe fatto a meno della difesa d'ufficio del suo vecchio capitano, che ha tirato in ballo indirettamente la natura dei rapporti non proprio idilliaci tra l'attuale allenatore e i suoi dirigenti. Emersi in maniera ancora più chiara nel corso dell'estate, caratterizzata da ripetute diversità di vedute sul mercato.
TOTTI: "DE ROSSI RISCHIA LA FINE DI MOURINHO"
Totti ha pure parlato dello strano destino che tocca ai capitani di tante battaglie, che con una sola maglia nelle rispettive carriere hanno costruito vere e proprie saghe, divenendone leggende. “Dalla Roma ultimamente nessuno mi ha mai cercato o mai chiamato. Noi l’abbiamo sempre detto, ne abbiamo parlato, il motivo è che siamo diventati ingombranti. Queste sono le risposte che ti dai. Un nome importante offusca tutto quello che c’è all’interno. Noi siamo ex giocatori, competenti nel settore e questa dovrebbe essere la cosa più importante per una società. Se non la prendono in considerazione, si vede che hanno altri obiettivi o pensieri”. Nell'elenco non c'è Ibrahimovic, che dopo il burrascoso addio di Maldini per volere dell'attuale proprietà del Milan, ha sostituito idealmente l'ex difensore nel ruolo di uomo di campo di riferimento nel gruppo di lavoro che determina ogni tipo di strategia in casa rossonera. Ma il discorso non cambia.
REDBIRD, TUTTE LE ACCUSE AD IBRAHIMOVIC
Seguendo le orme dell'Ibra calciatore, Zlatan è entrato alla sua maniera in questa nuova avventura, ponendosi sia all'interno che all'esterno come l'uomo forte al comando, l'uomo che non deve chiedere mai e che non deve rendere conto a nessuno se non a se stesso. E qui iniziano i problemi, legati principalmente alla difficoltà di disegnare i confini che un qualsiasi ex calciatore dal passato importante dovrebbe rispettare nel momento in cui decida di reinventarsi dirigente di club nel calcio di oggi. Un calcio che deve certamente rispettare e onorare il suo passato per costruire un futuro radioso, ma anche un calcio che non può prescindere dalle competenze. Ce lo insegnano in fondo le storie di gloriose società europee, che hanno affidato la propria gestione a grandissime stelle del passato (l'esempio di Rummenigge al Bayern Monaco è quello più emblematico) soltanto dopo un percorso di apprendimento che è durato degli anni. Altrove – al Real Madrid – si è optato per avere in Butragueno o Roberto Carlos delle figure spendibili più in ambito istituzionale e di immagine; una storia per certi versi non troppo diversa da quella di Javier Zanetti all'Inter. Ma raramente un grandissimo giocatore è poi diventato un dirigente di caratura altrettanto importante.
Nella Juventus della Triade guidata da Moggi ha trovato spazio un certo Roberto Bettega, con un ruolo comunque più defilato dello storico direttore generale e di un importante dirigente d'azienda come Antonio Giraudo. Ha funzionato meno, qualche anno più tardi, l'esperimento di di Pavel Nedved come braccio destro del presidente Andrea Agnelli. Prima al Barcellona e poi al Manchester City, al seguito di Pep Guardiola, si è imposta una figura non così “pesante” nel suo percorso da calciatore come Txiki Beguiristain. Ma si tratta di eccezioni, di casi isolati. La storia insegna che il passaggio da un ambito all'altro non è semplice e spesso è caratterizzato da alterne fortune. Assumersi la responsabilità di guidare un gruppo di lavoro, un'azienda che muove centinaia di milioni di euro non è cosa da tutti. Serve studiare e fare esperienza, dentro e fuori dal campo. Un po' come, nel suo piccolo, spera di fare alla Juventus Giorgio Chiellini che, dopo gli studi in parallelo con gli ultimi anni da giocatore, l'esperienza negli Stati Uniti e ora l'apprendistato alla Continassa, si candida per domani ad una posizione manageriale.
A poco serve cullarsi e bearsi di un passato glorioso, da campionissimo e pure da leader di spogliatoio. Quella del dirigente è un'altra vita, un'altra storia, un altro sport. Il senso di appartenenza serve ancora, eccome, è la linea di continuità tra passato, presente e futuro. Serve a preservare i valori e l'identità di una squadra di calcio, ma da solo non basta. Totti, Maldini, Del Piero e pure Ibrahimovic se ne facciano una ragione.
BOBAN NE HA TUTTI, CHE FRECCIATA AD IBRA
Durante la gestione americana di Pallotta, Totti è stato un volto più che altro di rappresentanza in una Roma che necessitava di alleggerirsi di un debito ereditato dalle proprietà precedenti e che, pur attraverso un player trading insistito, ha saputo mantenere un alto livello di competitività sia in Italia che in Europa, pur senza essere ricordata per la conquista di titoli. Non potendo così assecondare i desideri di Totti di avere sempre più campioni all'interno della squadra. L'ex capitano, che ad un certo punto gettò la spugna (era il giugno 2019), non ha mai nascosto negli anni di non aver gradito il trattamento riservato ad una bandiera della sua grandezza. Una bandiera, a suo dire, usata come specchietto per le allodole e poi ammainata per la seconda volta – dopo il tormentato fine carriera di calciatore – senza troppi riguardi. Totti tanto ha parlato e anche nelle ultime ore non si è sottratto ad un'analisi sul complicato avvio di stagione dei giallorossi, guidati da un amico fraterno come Daniele De Rossi. Un De Rossi che probabilmente avrebbe fatto a meno della difesa d'ufficio del suo vecchio capitano, che ha tirato in ballo indirettamente la natura dei rapporti non proprio idilliaci tra l'attuale allenatore e i suoi dirigenti. Emersi in maniera ancora più chiara nel corso dell'estate, caratterizzata da ripetute diversità di vedute sul mercato.
TOTTI: "DE ROSSI RISCHIA LA FINE DI MOURINHO"
Totti ha pure parlato dello strano destino che tocca ai capitani di tante battaglie, che con una sola maglia nelle rispettive carriere hanno costruito vere e proprie saghe, divenendone leggende. “Dalla Roma ultimamente nessuno mi ha mai cercato o mai chiamato. Noi l’abbiamo sempre detto, ne abbiamo parlato, il motivo è che siamo diventati ingombranti. Queste sono le risposte che ti dai. Un nome importante offusca tutto quello che c’è all’interno. Noi siamo ex giocatori, competenti nel settore e questa dovrebbe essere la cosa più importante per una società. Se non la prendono in considerazione, si vede che hanno altri obiettivi o pensieri”. Nell'elenco non c'è Ibrahimovic, che dopo il burrascoso addio di Maldini per volere dell'attuale proprietà del Milan, ha sostituito idealmente l'ex difensore nel ruolo di uomo di campo di riferimento nel gruppo di lavoro che determina ogni tipo di strategia in casa rossonera. Ma il discorso non cambia.
REDBIRD, TUTTE LE ACCUSE AD IBRAHIMOVIC
Seguendo le orme dell'Ibra calciatore, Zlatan è entrato alla sua maniera in questa nuova avventura, ponendosi sia all'interno che all'esterno come l'uomo forte al comando, l'uomo che non deve chiedere mai e che non deve rendere conto a nessuno se non a se stesso. E qui iniziano i problemi, legati principalmente alla difficoltà di disegnare i confini che un qualsiasi ex calciatore dal passato importante dovrebbe rispettare nel momento in cui decida di reinventarsi dirigente di club nel calcio di oggi. Un calcio che deve certamente rispettare e onorare il suo passato per costruire un futuro radioso, ma anche un calcio che non può prescindere dalle competenze. Ce lo insegnano in fondo le storie di gloriose società europee, che hanno affidato la propria gestione a grandissime stelle del passato (l'esempio di Rummenigge al Bayern Monaco è quello più emblematico) soltanto dopo un percorso di apprendimento che è durato degli anni. Altrove – al Real Madrid – si è optato per avere in Butragueno o Roberto Carlos delle figure spendibili più in ambito istituzionale e di immagine; una storia per certi versi non troppo diversa da quella di Javier Zanetti all'Inter. Ma raramente un grandissimo giocatore è poi diventato un dirigente di caratura altrettanto importante.
Nella Juventus della Triade guidata da Moggi ha trovato spazio un certo Roberto Bettega, con un ruolo comunque più defilato dello storico direttore generale e di un importante dirigente d'azienda come Antonio Giraudo. Ha funzionato meno, qualche anno più tardi, l'esperimento di di Pavel Nedved come braccio destro del presidente Andrea Agnelli. Prima al Barcellona e poi al Manchester City, al seguito di Pep Guardiola, si è imposta una figura non così “pesante” nel suo percorso da calciatore come Txiki Beguiristain. Ma si tratta di eccezioni, di casi isolati. La storia insegna che il passaggio da un ambito all'altro non è semplice e spesso è caratterizzato da alterne fortune. Assumersi la responsabilità di guidare un gruppo di lavoro, un'azienda che muove centinaia di milioni di euro non è cosa da tutti. Serve studiare e fare esperienza, dentro e fuori dal campo. Un po' come, nel suo piccolo, spera di fare alla Juventus Giorgio Chiellini che, dopo gli studi in parallelo con gli ultimi anni da giocatore, l'esperienza negli Stati Uniti e ora l'apprendistato alla Continassa, si candida per domani ad una posizione manageriale.
A poco serve cullarsi e bearsi di un passato glorioso, da campionissimo e pure da leader di spogliatoio. Quella del dirigente è un'altra vita, un'altra storia, un altro sport. Il senso di appartenenza serve ancora, eccome, è la linea di continuità tra passato, presente e futuro. Serve a preservare i valori e l'identità di una squadra di calcio, ma da solo non basta. Totti, Maldini, Del Piero e pure Ibrahimovic se ne facciano una ragione.
Commenti
(95)Scrivi il tuo commento
Checchè se ne dica Zhang, che probabilmente capisce di calcio meno di Cardinale, è l'unico che ha...