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  • Virdis, Bettega e le streghe di Macbeth

    Virdis, Bettega e le streghe di Macbeth

    • Marco Bernardini
    Talvolta è inutile nuotare controcorrente. Sono rari, forse, ma esistono. Situazioni e fatti della vita che accadono indipendentemente dalla nostra volontà. Quando pensiamo di fare bene e, invece, la somma delle azioni si rivela un disastro. Come se a preordinare tutto fossero state le tre megere che segnarono il tragico destino del re di Scozia, Macbeth. Nel caso, dunque, e meglio lasciarsi andare senza opporre resistenza. Prima o poi, tornerà il sereno.

    Ed è proprio la sensazione di grande serenità quella che ti avvolge se entri in un localino milanese di via Piero della Francesca. Un’enoteca fornita di superbi vini specialmente sardi che rivelano le origini del proprietario e dove ai pochi tavolini puoi gustare prelibatezze "fatte in casa" di ispirazione franco-piemontese perché la signora che sta in cucina è nata a Torino. L’insegna, sopra la porta di ingresso, è evocativa per chi mastica pallone: “Il gusto di Virdis”. Proprio lui. Pietro Paolo. E lei. La moglie Claudia sposata quando il giovane calciatore sardo, dopo aver sedotto Giampiero Boniperti,  tentava di far innamorare i tifosi della Juventus. Peccato che tra le buone intenzioni e la realtà dei fatti si misero di traverso le tre streghe shakesperiane variamente camuffate. Una aveva il volto di Roberto Bettega. L’altra somigliava a Franco Causio. La terza aveva la faccia malata. Uno storia bizzarra giusta per la vigilia di Milan-Juve, le due case "continentali" di Pietro Paolo Virdis.

    Lui che, era l’estate del 1977, scappava da un posto all’altro della Sardegna per non dover incontrare Boniperti munito di regolare contratto da fargli firmare. Pietro, da poco tempo, era rimasto orfano del padre. A lasciare l’isola e il Cagliari non ci pensava proprio. Era lui, ventenne, il nuovo capofamiglia. Era lui che, come aveva fatto Gigi Riva, sognava di regalare al popolo tifoso sardo nuovi sogni di gloria. Il "grande rifiuto" faceva scandalo mediatico e divenne un "sì" a denti stretti soltanto in zona Cesarini quando la mamma del ribelle costrinse il figlio a non buttare l’opportunità che la Juventus gli offriva. Giampiero Boniperti indossò gli abiti del buon pastore e fu ben lieto di accogliere la pecorella che si era smarrita nel bosco delle sue ansie esistenziali. Altri la presero male. Soprattutto uno dei nuovi compagni che Virdis avrebbe trovato nello spogliatoio del Comunale.

    Non un giocatore qualunque. Roberto Bettega, il capitano. L’indiscusso fuoriclasse e bomber di una Juventus della quale lui era diventato il leader carismatico nel corso di stagioni leggendarie e talvolta tribolate. Che da sempre e all’interno di ciascuna squadra si formino i "clan" è il segreto di Pulcinella. Che i giocatori più intelligenti  astuti riescano a "manovrare" il gruppo dirigendolo a volte contro il mister e altre a sbattere contro qualche "indesiderato" è altrettanto assodato. Bettega possedeva entrambe quelle qualità. Intelligente a anche astuto. Un autentico piemontese vecchio stampo, insomma, intellettualmenteformato dai salesiani (anche loro da ancien regime) dell’istituto Richelmy di Torino. Bobby-gol, comunque, aveva trovato pane per i suoi denti.

    Pietro Paolo Virdis, forse meno acculturato in quanto a nozionismo, faceva parte di una razza pregiata. Quella dei calciatori pensanti. Arrivava all’allenamento del mattino con sotto il braccio almeno tre quotidiani, le interviste che rilasciava non erano mai banali, evitava le comunelle un po’ pettegole con i compagni, in una frase si faceva i fatti suoi. Non solo. Anche per atteggiamento era diverso. Il suo "essere autenticamente sardo" gli conferiva un aplomb che i più distratti potevano scambiare presunzione. Bettega in quel senso, era distratto. Ma cosa va cercando questo ragazzino che non voleva venire qui e che ora se la tira? Dietro il sorriso di maniera del compagno importante Virdis riusciva a leggere il pensiero di un "nemico". Un capitano è tale se gli altri obbediscono. Franco Causio, il barone brasilero bianconero, potava essere la chiave del rompicapo. Me lo ha raccontato tempo fa Domenico Marocchino, un altro genio calcistico poco compreso: "Bettega proprio non sopportava Pietro. Sai cosa succedeva in campo? Palla al barone che fa il mago. Quando in area c’è Boninsegna ad aspettare il passaggio, lui gliela mette davanti sul piede giusto. Quando c’è Virdis in zona gol il pallone gli finisce puntualmente alle spalle". E’ la fotografia perfetta che, in sintesi, rappresenta la cronaca di tre stagioni da incubo professionale vissute da Virdis, una delle quali "manovrata" dalla terza strega ovvero la sfiga: mononucleosi, reumatosi e acciacchi assortiti. Nel 1980 tornò a Cagliari e poi nuovamente alla Juve, ma fu un lampo senza feeling anche se vinse lo scudetto. Alle sue spalle c’era già Paolo Rossi che, in estate e in Spagna, sarebbe diventato Pablito.

    Ma, come si dice? Per fortuna che Berlusconi c’è. Da Udine, dove è finito paradossalmente con Causio ma anche Zico, Virdis arriva alla corte del Milan. Liedholm lo ha voluto. Arrigo Sacchi, poi, ne farà un nuovo campione multiuso. E la fotografia di Pietro Paolo che, dopo cinque stagioni in rossonero, bacia la Coppa dei Campioni vinta a Barcellona contro la Steaua di Bucarest sta appesa alla parete di una delle due salette del "Gusto di Virdis" che profumano di buon cibo e di ottimo vino. 

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