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  • Metti una sera a cena con Gheddafi...

    Metti una sera a cena con Gheddafi...

    • Marco Bernardini
    Siano benedetti il gioco del pallone, tutti i suoi protagonisti e ciascuna sua singola vicenda in scena sotto il tendone di un “circo” che possiede ancora un sufficiente potere consolatorio. Altrimenti, il pensiero è destinato a imbucare altre vie. E’ possibile che tra qualche giorno, se  la sragione di Stato dovesse avere il sopravvento sulla ragione intellettuale, l’Italia potrebbe essere dichiarata ufficialmente in guerra e tremila dei nostri ragazzi partirebbero dalla base di Centocelle per raggiungere la regione di Sabrata, in Libia. 

    L’onorevole Giulio Andreotti, sia come premier e sia come Ministro degli Esteri, in tutto il suo lunghissimo percorso di fine e astuto statista mostrò di nutrire sempre un’attenzione particolare in senso ampio alla questione mediorientale e nello specifico allo sviluppo socio-politico del Paese nordafricano le cui coste sono nostre dirimpettaie. La Libia, per l’Italia, ha storicamente rappresentato molto nel bene come nel male. Il più delle volte ha giocato il ruolo, infido, di  una buccia di banana dimenticata in una stanza buia. Altre volte è stata compagna di viaggio.

    Per undici anni, dal 1934 al ’43, Tripoli ha rappresentato il “bel suol d’amore” per i trecentomila connazionali che un poco alla volta erano andati a vivere distribuendosi tra la capitale e Bengasi. Colonizzatori, certamente, ma  anche “molto italiani” e quindi diversi per approccio e per integrazione dai francesi o dagli inglesi. Prima della guerra la nostra comunità rappresentava il 25 per cento dell’intera popolazione libica. E quando fu il momento di sloggiare, la Libia era diventata un Paese diverso da quello che avevamo trovato. Più “moderno” per economia e sovrastrutture. Alcuni figli dei nostri “paisà” nati in Africa diventarono celebri in Italia. Franco Califano, Rossana Podestà, l’ambasciatore Caracciolo, il pittore Mario Schifano, il pilota di Formula Uno Lorenzo Bandini, il campione del mondo Claudio Gentile. Ciascuno di loro ricorderà gli anni della adolescenza con un velo di nostalgia.

    Poi, il 1 ottobre 1969, il successore di re Idris, principe Hazam, viene deposto con le armi dall’esercito repubblicano del colonnello Mu‘amar Gheddafi, l’uomo che per quarantadue anni deterrà il potere come “rais”. I rapporti Italia-Libia, mai realmente interrotti, riprendono in maniera politicamente e strategicamente paradossali. Gheddafi è l’uomo che finanzia e che addestra i feddayn palestinesi. E’ il “dittatore” (in realtà è un oligarca) il cui sogno è quello di vedere nascere la “Giamaaria”, ovvero una nazione “panaraba”.  E’ il “rivoluzionario” che si schiera apertamente contro l’apartheid sudafricana e a favore di Mandela. E’ il soffocatore, anche in senso reale, di ogni sussulto che non preveda l’osservanza scrupolosa di ciò che lui ha scritto nel suo “libretto verde”. Per gli Stati Uniti è il despota di uno Stato Canaglia. Ma, in particolare per l’Italia, la Libia del colonnello è il più prolifico produttore di materie prime (gas e petrolio) e il più affidabile tra tutti i possibili partner nordafricani. Sicchè se da un lato i nostri governi ufficialmente “condannano” il “rais” per la sua politica interna, dall’altro sottobanco consentono a Eni e Fiat in primis saldare i rapporti con Gheddafi il quale diventa anche socio importante di Gianni Agnelli mentre il terzo dei suoi figli maschi, Saad, entra nel Consiglio della Juventus. Non solo. A Gheddafi senior l’Italia riesce persino a salvare la vita. E’ il 20 giugno del 1980. Un missile aria-aria lanciato (come si saprà soltanto dopo molti anni) da un Caccia dell’aviazione francese colpisce nel cielo sopra Ustica un DC 9 Itavia con ottantuno persone a bordo. L’ordigno avrebbe dovuto colpire l’aereo sul quale viaggiava Gheddafi il cui comandante, avvertito dai nostri Servizi, fece dietrofront riportando il colonnello a Bengasi indenne  grazie al Sismi.

    Nel 1973, giornalista appena professionista, ebbi un bel colpo di fortuna ad Algeri dove, per la Gazzetta del Popolo di Torino, ero stato inviato per seguire il “summit” dei Paesi non allineati. Aiutai, per come potevo, il maestro Igor Man a superare, senza smettere di scrivere il suo pezzo per “La Stampa”, una violenta crisi da febbre malarica. Come tutti i veramente grandi, mi ringraziò e mi “adotto”.  Il giorno dopo ero con lui a intervistare in esclusiva Salvador Allende che stava per tornare in Cile dove sarebbe stato assassinato. Altri due giorni e, questa volta insieme anche a Luciana Castellina del “Il Manifesto”, eravamo nel deserto sotto una tenda. Lì ci aspettava Gheddafi. Oltre a un uomo spiritoso e intelligente, rammento il sapore di un agnello cucinato in maniera magica e il profumo del succo di ribes e lamponi nelle coppe di cristallo. Da quel giorno, per dieci anni di fila, a settembre (mese  della rivoluzione libica) ricevetti per posta l’edizione aggiornata del libretto verde scritto in arabo e in francese.

    Vent’anni dopo quella memorabile cena nel deserto libico, mi trovo nuovamente al  tavolo del desinare con un “Gheddafi”.  Siamo al ristorante dell’Hotel Brufani, a Perugia. Dalla terrazza la vista sulla valle è da mozzafiato. Vive in quell’albergo di lusso Saad, il figlio del rais, il quale da sopra un piatto fumante di tagliolini al tartufo nero mi spiega come far fortuna in Italia. Lui, primo calciatore libico nel nostro calcio. Il presidente Luciano Gaucci lo guarda con gli occhi che luccicano, manco fosse il suo cavallo-campione Tony Bin quando vinse l’Arc a Parigi. Lui e il Perugia in prima pagina, grazie a Gheddafi. Per poco. Un simpatico casinista anche un po’ cialtrone, Saad e il pallone non sono fatti l’uno per l’altro. Rimarrà quattro anni in Italia giocando una sola partita con la maglia dell’Udinese. La secnda e ultima dopo quella dell’esordio in Umbria contro la Juve. Più facile, la domenica, trovarlo a Torino in tribuna a fare il tifo per i suoi bianconeri. Oggi l’uomo che avrebbe dovuto succedere al “rais” sopravvive in una prigione a nord di Sabrata e attende che venga eseguita la sentenza della pena di morte. L’ho visto in alcune fotografie che denunciavano le torture subite in carcere da Saad. E’ stata dura riconoscere in quella maschera il ragazzo che voleva diventare campione.

    E’ questa la storia (vera) di due cene piuttosto speciali il cui ricordo non ho potuto fare a meno di ricacciare mentre dai notiziari tivvù arrivavano cattive nuove (l’uccisione di Failla e Piano) e buone nuove (Pollicarlo e Calcagno vivi). Eppoi, prima volta in assoluto dalla voce di un politico, Bersani, che dice: “Probabilmente abbiamo commesso un clamoroso errore, cinque anni fa”. Il 20 ottobre 2011, sul limitare del deserto della Sirte. In differita via satellite per le televisioni di tutto il mondo. L’uomo che viene tirato in piedi con la forza da dentro una buca dove stava nascosto come un ratto e poi trascinato via come un animale ferito è Mu‘amar Gheddafi, il rais che l’Occidente ha coccolato facendo finta di odiarlo fino a quando poteva servire. Un colpo di pistola sparato da un agente dei servizi francesi (massì, per evitare che Gheddafi parlasse di Sarkozy e lo inguaiasse) travestito da miliziano libico ha chiuso una storia davvero orrenda scritta a beneficio di Agip, Total, BP e di tutte quelle multinazionali che per potersi spartire il bottino ora vorrebbero costringere tremila nostri ragazzi a partire per Sabrata.

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