Paradosso Milan: non ha voluto il manager Conte, ma nello spogliatoio comanda solo Fonseca
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Era il 13 giugno scorso quando Zlatan Ibrahimovic presentava così Paulo Fonseca nella conferenza stampa per introdursi a tutti gli effetti nella nuova veste di superconsulente della nuova proprietà del Milan. Preferendolo, tra gli altri, ad un profilo più forte, più di spessore e di carisma riconosciuto come Antonio Conte: “Perché no a Conte? Prima si studia l’identità di gioco. Quando abbiamo parlato faccia a faccia con Fonseca ci ha convinto la sua ambizione e la sua voglia di lavorare. Quando abbiamo scelto: il Milan ha un allenatore, non un manager, è diverso. Con tutto il rispetto per Conte che è un grande allenatore: non è quello che cercavamo, non rientrava nei nostri criteri. Per noi era importante trovare un allenatore che andasse bene con la squadra e i giocatori che abbiamo”.
Il no all'attuale tecnico del Napoli era soprattutto un no ad un'idea di allenatore che mal si sarebbe sposata con l'intenzione di portare avanti una cultura del lavoro e della programmazione imperniata sul concetto di condivisione delle strategie con la dirigenza. Senza personalismi, senza che una figura – ancorché centrale nelle dinamiche di una squadra di calcio, prevalesse su tutte le altre. Antonio Conte, dall'alto di un curriculum che recita 4 Scudetti e una Premier League fra le altre cose, ha saputo costruirsi la fama di allenatore con pochissimi eguali per capacità di incidere da subito sui calciatori e di inculcare una mentalità vincente. Come tale e come dimostra l'evoluzione del suo rapporto col presidente del Napoli Aurelio De Laurentiis sin dai primi mesi, Conte “pretende” di avere un controllo su ogni aspetto della squadra e di avere un certo peso politico nelle scelte di calciomercato. Tutti aspetti fondamentali che il Milan dell'attuale gruppo di lavoro – composto dall'ad Furlani, dal dt Moncada e da Ibrahimovic – avrebbe faticato a digerire.
Da qui la scelta di puntare su un professionista come Paulo Fonseca, più morbido e “malleabile” sotto determinati punti di vista, bravo nella sua esperienza di Lille a plasmare una squadra ricca di giovani e di giocatori di talento e a trasmettere un'identità calcistica molto riconoscibile. Un allenatore chiamato sulla carta ad essere solamente questo e, come in effetti è dimostrato dalla conduzione della campagna acquisti/cessioni della passata estate, ad incidere poco o nulla sulle scelte della società. Ma che quasi certamente mai si sarebbe aspettato di dover ereditare dal suo predecessore Stefano Pioli anche il ruolo di amministratore unico dello spogliatoio e di tutte le sue pieghe. Nel bene e nel male.
L'andamento della stagione del Milan, tutte le situazioni di frizione venutesi a creare quasi da subito – i casi Leao e Theo Hernandez tra Parma e la sfida con la Lazio, l'insubordinazione ancora del francese e poi di Tomori e Abraham sui rigori di Firenze, la gestione di Calabria – hanno costretto Fonseca ad una gestione che è divenuta ben presto in solitaria. La presenza discontinua della dirigenza, in primis di quell'uomo di riferimento che dovrebbe essere Zlatan Ibrahimovic – per essere stato un grande calciatore e aver frequentato lo spogliatoio rossonero a più riprese – si è avvertita pochissimo. Anche per la scelta deliberata della società rossonera di comunicare poco con l'esterno. Una scelta che, da un lato, evidenzia alcuni limiti del modello americano applicato alle dinamiche del calcio italiano, dall'altro ha esaltato la figura di Paulo Fonseca. Bravissimo, per esempio, a tirare fuori una versione tutta nuova di Rafael Leao: più centrale, più nel vivo del gioco e più decisivo sottoporta.
Un fatto paradossale per certi versi: proprio quel Milan, che solamente pochi mesi fa respingeva l'idea di affidare il suo nuovo ciclo ad un tecnico che non avesse pretese di esercitare un controllo che andasse oltre la tattica, si ritrova oggi nelle condizioni di delegare ad una sola persona la risoluzione di una serie di problematiche che hanno minato e stanno minando gli equilibri dello spogliatoio, oltre a far partire da subito in salita l'andamento della stagione. Con una squadra già lontanissima dalla vetta della classifica e distante dal quarto posto in campionato, che in Champions League ha trovato invece – quasi inaspettatamente – il colpo di reni per rendere meno amaro il quadro complessivo.
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Il no all'attuale tecnico del Napoli era soprattutto un no ad un'idea di allenatore che mal si sarebbe sposata con l'intenzione di portare avanti una cultura del lavoro e della programmazione imperniata sul concetto di condivisione delle strategie con la dirigenza. Senza personalismi, senza che una figura – ancorché centrale nelle dinamiche di una squadra di calcio, prevalesse su tutte le altre. Antonio Conte, dall'alto di un curriculum che recita 4 Scudetti e una Premier League fra le altre cose, ha saputo costruirsi la fama di allenatore con pochissimi eguali per capacità di incidere da subito sui calciatori e di inculcare una mentalità vincente. Come tale e come dimostra l'evoluzione del suo rapporto col presidente del Napoli Aurelio De Laurentiis sin dai primi mesi, Conte “pretende” di avere un controllo su ogni aspetto della squadra e di avere un certo peso politico nelle scelte di calciomercato. Tutti aspetti fondamentali che il Milan dell'attuale gruppo di lavoro – composto dall'ad Furlani, dal dt Moncada e da Ibrahimovic – avrebbe faticato a digerire.
Da qui la scelta di puntare su un professionista come Paulo Fonseca, più morbido e “malleabile” sotto determinati punti di vista, bravo nella sua esperienza di Lille a plasmare una squadra ricca di giovani e di giocatori di talento e a trasmettere un'identità calcistica molto riconoscibile. Un allenatore chiamato sulla carta ad essere solamente questo e, come in effetti è dimostrato dalla conduzione della campagna acquisti/cessioni della passata estate, ad incidere poco o nulla sulle scelte della società. Ma che quasi certamente mai si sarebbe aspettato di dover ereditare dal suo predecessore Stefano Pioli anche il ruolo di amministratore unico dello spogliatoio e di tutte le sue pieghe. Nel bene e nel male.
L'andamento della stagione del Milan, tutte le situazioni di frizione venutesi a creare quasi da subito – i casi Leao e Theo Hernandez tra Parma e la sfida con la Lazio, l'insubordinazione ancora del francese e poi di Tomori e Abraham sui rigori di Firenze, la gestione di Calabria – hanno costretto Fonseca ad una gestione che è divenuta ben presto in solitaria. La presenza discontinua della dirigenza, in primis di quell'uomo di riferimento che dovrebbe essere Zlatan Ibrahimovic – per essere stato un grande calciatore e aver frequentato lo spogliatoio rossonero a più riprese – si è avvertita pochissimo. Anche per la scelta deliberata della società rossonera di comunicare poco con l'esterno. Una scelta che, da un lato, evidenzia alcuni limiti del modello americano applicato alle dinamiche del calcio italiano, dall'altro ha esaltato la figura di Paulo Fonseca. Bravissimo, per esempio, a tirare fuori una versione tutta nuova di Rafael Leao: più centrale, più nel vivo del gioco e più decisivo sottoporta.
Un fatto paradossale per certi versi: proprio quel Milan, che solamente pochi mesi fa respingeva l'idea di affidare il suo nuovo ciclo ad un tecnico che non avesse pretese di esercitare un controllo che andasse oltre la tattica, si ritrova oggi nelle condizioni di delegare ad una sola persona la risoluzione di una serie di problematiche che hanno minato e stanno minando gli equilibri dello spogliatoio, oltre a far partire da subito in salita l'andamento della stagione. Con una squadra già lontanissima dalla vetta della classifica e distante dal quarto posto in campionato, che in Champions League ha trovato invece – quasi inaspettatamente – il colpo di reni per rendere meno amaro il quadro complessivo.
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